È una combustione lenta, quella che Thérèse Mulgrew mette in scena nella sua prima personale italiana da Galleria Poggiali a Milano, ed è la stessa che le sue opere sembrano volerci far sentire sulla pelle. Non una fiamma improvvisa, ma un braciere che arde in silenzio, una brace esistenziale fatta di sguardi trattenuti, mani che sfiorano, piatti sospesi tra un pasto iniziato e una storia interrotta. “Slow Burn” – non si tratta solo di ritmo, ma di tensione narrativa, di un desiderio che serpeggia, che si accumula nell’attesa e si consuma lentamente, senza mai esplodere del tutto.
Mulgrew lavora come se dipingesse fotogrammi rubati da un film che non vedremo mai, lasciando a noi spettatori il compito di ricostruire trama, personaggi, svolgimenti. Ma ciò che conta davvero è il momento prima, quell’attimo sospeso che precede il gesto, la parola, lo sguardo incrociato. È lì che la sua pittura vive, è lì che ci cattura.
Nelle stanze della galleria in Foro Buonaparte 52 ci si muove in uno spazio rarefatto, tra corpi e oggetti che sembrano appena abbandonati o non ancora toccati. Un bicchiere a metà, una sigaretta consumata a tre quarti, due mani che si sfiorano su una tovaglia come se tutto potesse iniziare o finire da un momento all’altro. Il tempo, nella pittura di Mulgrew, non è lineare, è una sospensione carica di significato, un teatro intimo dove la luce – costruita e calibrata con attenzione quasi cinematografica – taglia i contorni e amplifica le attese.
In “Awaiting Lunch Guests” una figura attende l’arrivo di qualcuno. Non sappiamo chi, non sappiamo se arriverà. Ma ogni oggetto appare disposto con cura chirurgica, ogni piatto parla di un’accoglienza mancata o temuta. In “Intimate Lunch” il dettaglio si restringe a due mani e un piatto condiviso, il resto scompare, come se tutto il mondo fosse contenuto in quel minimo sfiorarsi. Ed è in questa riduzione che Mulgrew eccelle: sa eliminare il superfluo senza mai perdere densità, sa costruire l’intimità come un paesaggio, l’attesa come un corpo.
Il corpo, però, non è sempre tutto visibile. In “Lipstick Touch-up”, ad esempio, la figura è ritratta di spalle, il volto solo accennato nel riflesso di uno specchio. Ancora una volta, ciò che conta è l’attimo prima: prima che il rossetto tocchi le labbra, prima che l’immagine si completi. C’è una malinconia sottile, un erotismo trattenuto, una tensione che non trova mai il suo sfogo. E forse non vuole trovarlo. Il gesto, qui, è tutto: e sono i gesti che Mulgrew decide di isolare in una serie che potrebbe essere letta come un mini atlante emozionale. “The Lover”, “The Trickster”, “The Expert”, “The Skeptic”, “The Critic”, “The Overthinker” – sei piccoli quadri che ritraggono mani nell’atto di tenere una sigaretta, ognuna con una postura diversa, ognuna come una personalità che si rivela attraverso la combustione, la presa, la postura. Anche qui il tempo è protagonista: il tempo della combustione, certo, ma anche quello dell’identità che si svela e si dissolve tra le dita, tra il fumo e la cenere. Una sigaretta come metafora del pensiero, del desiderio, del rimpianto.
C’è una qualità quasi metafisica in questi lavori, ma mai fredda. Al contrario: la pittura di Mulgrew è calda, carnale, piena di materia e vibrazione. Sa parlare con la luce come con le ombre, sa rendere vivo il gesto anche quando congelato sulla tela. Forse perché dietro ogni opera si intuisce un set, una scena costruita dall’artista come se stesse dirigendo un film: ogni oggetto è scelto, posizionato, illuminato. Ma ciò che vediamo non è la regia, è l’enigma. E questo enigma è ciò che rende “Slow Burn” così potente: una mostra che non urla, che non esibisce, ma che lavora dentro, lentamente. Come il fuoco sotto la cenere. Come un ricordo che non si lascia dimenticare.
“Slow Burn”, è un esercizio di attenzione, una lezione di ritmo, una difesa del tempo lento in un mondo che corre senza posa. È pittura che respira, e ci ricorda che a volte, per sentire davvero qualcosa, bisogna semplicemente fermarsi.