Il trionfo retrospettivo della pittrice palestinese Samia Halaby in Michigan dopo la cancellazione in Indiana

Sono passati quasi 60 anni da quando Samia Halaby, durante i suoi studi di laurea alla Michigan State University (MSU), si avvicinò per la prima volta alla pittura astratta. Ora, alla veneranda età di 87 anni, la prolifica pittrice palestinese vede realizzata la sua prima retrospettiva negli Stati Uniti, “Samia Halaby: Eye Witness”, presso il Broad Art Museum della MSU. In un ritorno alle origini, la mostra porta al pubblico dell’alma mater dell’artista alcuni dei primi esperimenti di astrazione. Due esempi salienti sono “Lilac Bushes” (1960) e “House” (1959), entrambi caratterizzati da spesse stratificazioni di colori caldi che si contrappongono agli oliva e ai blu freddi.

Da sempre, Halaby ha spinto incessantemente i limiti dell’astrazione a olio per catturare ed esemplificare varie esperienze sensoriali. All’inizio, ha puntato la sua attenzione sulle rifrazioni prismatiche. Un lavoro, “Aluminum Steel” (1971), mostra la sua capacità di trarre ispirazione da fonti ed esperienze piuttosto quotidiane. Esemplare della sua tendenza a scomporre ampi piani metallici in centinaia di sottili bande di colore, questo dipinto conferma la visione dell’artista del metallo come “l’unico materiale con riflessi colorati”. Accanto, uno studio tonale dipinto a mano e uno schizzo a matita incorniciato rivelano l’attenta pianificazione alla base dell’opera dipinta, un monumento alla dedizione e alla pazienza.

Ma nonostante tale diligenza, Halaby, come molte altre artiste della sua generazione, ha dovuto attendere decenni prima di ricevere il dovuto riconoscimento. Non è un caso che la sua affermazione istituzionale sia arrivata prima in ambito educativo che in quello artistico: nel 1972 divenne la prima donna ad essere nominata professora associata a tempo pieno presso la Yale School of Art.

Nonostante l’indubbia frustrazione accumulata nel corso di una lunga carriera, non vi è traccia di rancore nelle opere di Halaby. Quest’ultima dimostra una vocazione coraggiosa all’esplorazione formale e un’insaziabile voglia di cercare. Il suo uso del colore è vivace e caleidoscopico: “Mother of Pearl II” (2018) presenta ogni colore dell’arcobaleno in un turbinio astratto di forme simili a tessere di mosaico. Nelle sue mani, l’astrazione non è un mezzo per trasformare il soggetto in un enigma, bensì un veicolo che permette all’opera di aprirsi verso qualcosa di universale.

Fino alla metà degli anni ’70, Halaby è stata prevalentemente occupata con disegni a linee diagonali. Nel 1976, tuttavia, lasciò il suo incarico alla Yale e si trasferì a New York, dove tutt’ora risiede. Lì, si adattò a nuovi strumenti, nuove prospettive e un intero nuovo arsenale di forme geometriche. “Pink Walking Green” (1983) ricorda un tetris di forme geometriche colorate.

A 30 anni da quel momento, la costellazione di conseguenze di quel doloroso testimone non ha fatto altro che moltiplicarsi. Di recente, al pari di altri artisti negli Stati Uniti, Halaby ha subito conseguenze professionali per la sua presa di posizione. L’esposizione “Eye Witness” era inizialmente pensata come una mostra congiunta tra MSU e Indiana University (IU), dove l’artista palestinese ha conseguito il suo MFA. Tuttavia, a gennaio l’IU ha improvvisamente annullato la sua mostra citando vaghi “motivi di sicurezza” e congedando l’artista con una fredda mail di due righe. La cancellazione è seguita a un post di Halaby su Instagram in cui condannava la politica di bombardamento di Gaza da parte di Israele. Nonostante tutto, come sempre, Samia Halaby ha continuato a dipingere, a esprimere e a far trionfare la libertà del suo pensiero artistico, dimostrando ancora una volta l’indomita forza dell’espressionismo artistico.

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