In Valtellina un escursionista scopre un ecosistema fossile di 280 milioni di anni fa

L’errore più comune che si può fare quando si parla con un(’) archeolog- è chiedere: “Ah quindi studi i dinosauri?”

Chiariamo una volta per tutte: l’archeologia è una cosa, la paleontologia è un’altra, e non per spocchia o manie di superiorità, ma perché – a tutti gli effetti – sono due discipline e due scienze completamente a sé stanti, che richiedono una formazione e una preparazione diverse e che godono ciascuna di una propria dignità da rispettare.

A chi scrive, però, le polarizzazioni piacciono ancor meno delle commistioni, e visto che se c’è qualcosa che accomuna archeologia e paleontologia è il fascino della scoperta, il “tirar fuori” qualcosa dal terreno e dal passato, un archeologo racconterà e celebrerà una scoperta paleontologica, con buona pace dei partigiani più agguerriti. Una scoperta è una scoperta.

C’è – forse – un unico lato positivo nello scioglimento dei ghiacciai causato dal cambiamento climatico in atto (e – diciamocelo – di questo lato positivo ne faremmo più che volentieri a meno): possiamo vedere cosa c’è sotto. E allora – magari – capita che durante un’escursione a 3000 metri di quota, in un punto da sempre occupato da neve e ghiaccio, quella neve e quel ghiaccio non ci siano più, ma la loro assenza riveli qualcosa di straordinariamente interessante.

È quello che è successo nel Parco delle Orobie Valtellinesi, nella sondrasca Valtellina, a un’escursionista di Lovero pochi giorni fa, che, per pura casualità, ha notato qualcosa di estremamente interessante impresso nella roccia. Il tutto è stato, prima, documentato fotograficamente, poi oggetto di studio di un team di ricercatori (il paleontologo Cristiano Dal Sasso del Museo di Storia Naturale di Milano, il geologo Ausonio Ronchi dell’Università di Pavia e l’icnologo, uno studioso delle tracce che un essere vivente lascia nei substrati, Lorenzo Marchetti del Museo di Storia Naturale di Berlino), e, infine, dopo una spettacolare azione di recupero con elicottero, data l’estrema altitudine, esposto al Museo di Storia Naturale di Milano.

Di cosa si tratta? Beh, di tracce di un mondo che definire remoto è eufemistico, tracce di vita (e non solo) risalenti a 280 milioni di anni fa, al Permiano nello specifico, l’ultima fase del Paleozoico. Orme e impressioni di pelle di rettili, anfibi, insetti e artropodi, spesso allineate a formare delle piste, ma anche semi, piante, addirittura gocce di pioggia: insomma un vero e proprio ecosistema fossile! Almeno cinque specie animali diverse sono state individuate, una delle quali doveva raggiungere una dimensione di due, se non tre metri di lunghezza: non un dinosauro (è ancora troppo presto), ma comunque un bel bestione!

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Ma come è possibile che addirittura le strisciate di una coda di 280 milioni di anni fa possano essersi conservate fino ad oggi? Riassumendo le ben più autorevoli parole di Ronchi e Marchetti, gli esseri viventi e i fenomeni atmosferici impressero il loro passaggio quando la dura roccia di arenaria che compone oggi le pareti dei vari picchi valtellinesi, dal Pizzo del Diavolo di Tende, al Pizzo dell’Omo, fino al Pizzo Rondenino, altro non era che fango e sabbia intrisi d’acqua di fiumi e laghi, fiumi e laghi che, periodicamente, sotto il sole estivo, si prosciugavano. Proprio la calura estiva seccava a tal punto gli strati fangosi da impedire al ritorno dell’acqua di cancellare le impressioni e, anzi, i nuovi fanghi argillosi e sabbiosi formatisi creavano una sorta di coperta protettiva, permettendo così la loro conservazione. Strati su strati su strati di sabbie sedimentate formano, nel corso di milioni di anni, le rocce arenarie, che, in questo caso, costituiscono uno scrigno preziosissimo di memorie da un passato altrimenti irraggiungibile.

Un insieme di eventi assolutamente casuali, tra loro privi di apparente connessione, eppure con una precisa conseguenza nel tempo e nello spazio, dal passaggio di un lucertolone fino all’escursione di un essere umano.

Cose da pelle d’oca. Anzi, di rettile!

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