È più rilevante l’artista, che fa arte, o il critico, che posiziona il lavoro dell’artista relazionandolo alla cultura del suo tempo, distrigandosi in una giungla di preposizioni, fatti e convinzioni? Lungi da noi rispondere, certo verrebbe da dire che senza l’artista non ci sarebbe il critico, ma ne siamo così sicuri? Chi si occupa di estetica analitica, ovvero di ontologia dell’arte, ovvero di cosa sia davvero l’arte, potrebbe ampiamente dibattere su questo tema, ed in effetti per cinquant’anni lo ha fatto.
Il primo a muovere la questione fu Ludwig Wittgenstein con il suo scetticismo dichiarò che non si può definire l’arte (Ricerche Filosofiche, 1953, pubblicate postume), poi seguì sulla stessa falsa riga Morris Weitz che nel saggio The Role of Theory in Aesthetics, del 1956, sostiene che qualsiasi tentativo di definire l’arte è destinato a fallire, lasciando disponibile solo una definizione aperta, parlò di famiglie di concetti. Citiamo ancora due tra i tantissimi che si sono buttati nella mischia di questa affascinante materia, il più noto forse, Arthur Danto, che razionalizza la teoria dell’arte nel tentativo di distinguere un oggetto artistico da un oggetto comune, realizzando quella “trasfigurazione del banale” che dà il titolo all’importante opera teorica, The Transfiguration of the Commonplace (1981). Poi è la volta di chi ritiene fondamentale il fatto che l’arte sia riconosciuta come tale da coloro che hanno l’autorità per farlo, si apre così la strada a teorie di tipo procedurale. Danto, dopo aver accennato a questa soluzione nel 1964, in seguito ne diventerà un critico, mentre sarà la teoria istituzionale dell’arte, sviluppata ampiamente da George Dickie a partire da Art and the Aesthetic: An Institutional Analysis (1974), a portare avanti questa prospettiva. In pratica per Wittgenstein l’arte non è definibile, per Weitz è definibile in modo interpretativo, per Dickie è arte ciò che la gente che conta dice che sia arte. Ma Danto cosa afferma?
Secondo Arthur Danto, l’essenza dell’arte non risiede nelle proprietà estetiche o formali dell’opera, ma nella sua interpretazione all’interno del contesto del “mondo dell’arte”. Egli introduce il concetto di “mondo dell’arte” come l’insieme delle pratiche, delle teorie, delle istituzioni e delle discussioni che conferiscono a un oggetto il suo status di opera d’arte.
Un esempio famoso che Danto usa per illustrare la sua teoria è la Brillo Box di Andy Warhol, che esteticamente non si distingue dalle scatole di Brillo che si possono trovare in un supermercato. Tuttavia, ciò che rende la Brillo Box di Warhol un’opera d’arte non è il suo aspetto visivo, ma il contesto teorico e storico in cui è stata creata e presentata. Questo contesto include la storia dell’arte precedente, l’intenzione dell’artista, e il modo in cui l’opera viene interpretata e discussa nel mondo dell’arte.
Arthur Danto ha proposto una visione dell’arte che si basa sull’interpretazione e sul contesto teorico in cui un’opera è inserita. Secondo Danto, ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte non è una qualità intrinseca, ma il modo in cui esso è riconosciuto e discusso nel mondo dell’arte. Questa teoria sposta l’attenzione dalla ricerca di una definizione essenziale dell’arte alla comprensione del ruolo della teoria e dell’interpretazione nella creazione e nella ricezione delle opere d’arte. Danto dichiara la “Fine dell’arte”, un’idea che non significa la cessazione della produzione artistica, ma piuttosto la fine della storia dell’arte intesa come un’evoluzione verso un obiettivo estetico finale. Egli sostiene che dopo le avanguardie del XX secolo, l’arte ha raggiunto un punto in cui tutto è possibile, e non ci sono più regole fisse o obiettivi verso cui l’arte deve tendere.
Ma torniamo a chi ha acceso la questione, a Ludwig Wittgenstein, che nel Tractatus Logico-Philosophicus (1921) afferma che il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose. Per il filosofo il mondo è costituito da fatti (stati di cose) piuttosto che da oggetti. I fatti possono essere rappresentati da proposizioni che hanno una struttura logica corrispondente alla struttura dei fatti stessi.
La funzione del linguaggio
Secondo Wittgenstein, il linguaggio ha la funzione di rappresentare i fatti del mondo. Le proposizioni sono immagini logiche dei fatti, e il loro significato deriva dalla corrispondenza con la realtà (abbiamo parlato di posizioni simili in Intelligenza artificiale, filosoficamente parlando, pt. 1). Ludwig Wittgenstein non ha fornito una definizione formale di arte, ma ha discusso il tema in modo indiretto, soprattutto nel contesto delle sue riflessioni sul linguaggio e sul significato. La sua prospettiva sull’arte è collegata alla sua filosofia del linguaggio, in particolare all’idea che il significato delle parole dipenda dal loro uso in specifici contesti, piuttosto che da una definizione fissa.
Attualmente il dibattito relativamente all’AI e all’arte è relativamente a come interpretare artefatti generati dall’AI. Il dibattito pare essere incentrato sulla questione se l’AI potrà o non potrà entrare a tutto titolo ad essere definito ‘artista’, o forse resterà solo uno strumento per gli artisti? Alla luce di queste analisi, di cui ovviamente non possiamo che averne fatto solo un piccolissimo accenno, ci chiediamo invece una domanda molto diversa. La domanda è: che tipo di critico d’arte sarebbe l’AI?
Se è vero che con “la fine dell’arte” di Danto non si può più far riferimento all’estetica e tutto si riduce a fatti e linguaggio (Wittgenstein) o a relazioni di sistema (Dickie) non possiamo che notare che sono tutti campi dove l’AI eccelle. Sempre in più campi scopriamo che non è l’AI a sostituire l’uomo, ma è l’uomo stesso che, filoficamente, ha razionalizzato la sua realtà a tal punto che diventa computabile (ne parliamo qui: La fine della storia è stata rimandata e gli algoritmi si prendono gioco di noi). I filosofi di estetica analitica hanno spostato in cinquant’anni ciò che appartiene al sentire e vedere verso il formale ed il linguaggio. L’AI ne sarà solo umile servo e temo, con queste premesse, potrebbe diventare un ottimo critico d’arte.
Per quanto concerne la domanda di apertura, se sia più rilevante fare l’artista o il critico, ci piace citare una frase di Demetrio Paparoni in Arthur Danto e la questione formale (rivista di estetica, n. 35 02/2007): “la miglior critica è quella fatta dagli artisti, i quali capiscono più di chiunque altro le difficoltà di rendere credibile una forma”.
le puntate precedenti di queste riflessioni su coscienza, pensiero filolosofico e intelligenza artificiale le potete trovare qua:
Dio è nei dettagli? No, nei computer. Un’ipotesi sull’uomo, la Natura e l’Intelligenza Artificiale
Ockham ed Intelligenza Artificiale: rasoi per pelo e contropelo a confronto
Il Papa al G7 per parlare di AI, tra auspici, buone intenzioni e forse un poco di rassegnazione
Thomas Hobbes ed il deep learning. AI tra draghi ed algoritmi etici
Intelligenza artificiale, filosoficamente parlando (pt. 1)
76 domande cui non vorresti dover pensare. Tra cui fare l’amore con un robot
Essere o non essere, matematica o non matematica? Questo è il dilemma
Gombrowicz: arte, coscienza ed esistenza per la nostra immaturità
Paura e desiderio ai tempi dell’AI
Il darvinismo universale nell’era della AI
Filosofia islamica e machine learning
Teoria dei giochi: Dente per dente o perdono?
Intelligenza artificiale, filosoficamente parlando (pt. 2)
Urge un metabolismo per l’intelligenza artificiale
Come si misura l’informazione e perché è Dio la fonte di ogni dubbio
Principi dell’Extropianesimo: un Quadro Evolutivo verso il postumanesimo