Sbigottita meraviglia e senso del pudore violato, violentato e poi lavato dall’offesa. Davanti all’opera d’arte si smarriscono le vie note del mondo sensibile e si è assorbiti dai mondi extra dimensionali noti solo all’artista, come gli addicted sono risucchiati dagli osculi delle astronavi aliene. Solo l’artista rivela la verità profonda, vale a dire quella vera. Come gli aruspici, i profeti, le fate e i fantasmi che ispirano i sogni. Tali esseri ed essenze sono, verosimilmente, non visibili all’Uomo moderno (a parte ai sofferenti di fantasmatiche visioni), e quanti se ne sentono ormai, tra i sani di mente, che affermano di non sognare più? O almeno di non ricordare i sogni?
Pertanto, quando si ha la fortuna di incontrare un artista rivelatore è consigliabile non temerlo, non ignorarlo, non rifuggirlo. Tutte reazioni, nell’ordine dato, che pertengono assiduamente all’atteggiamento contemporaneo dei cosiddetti normodotati psichici di fronte all’arte, preferendo, perlopiù, gli inganni perpetrati da santoni tutt’affatto spirituali. Casomai espertissimi tecnocrati del marketing e della comunicazione (le arti del diavolo). Sergio Padovani, maestro autodidatta, testimone fedele dell’assunto (dogmatico, sì) che l’arte è sapienza innata, il diavolo lo ha smascherato e ne riproduce l’immane, impudica, oscena terribilità. Ma con una grazia accessibile, non già solo tollerabile, ma di soave apprezzamento nel risultato contemplativo.
Praticamente un miracolo: l’artista modenese rappresenta l’umana condizione combinando e scombinando i piani della percezione ontologica dell’umanità, dalle raffigurazioni del disumano, transumanando dolcemente nel mare del subumano, fino a lambire, a onor del vero quasi raggiungendo, il sovrumano che incarna il divino. Diciamo “quasi” perché tale raggiungimento è proibito, come si sa, all’opera umana, ma la tensione che imprime Padovani alla sua opera – figurativa dell’astrazione, si potrebbe dire – è di natura trascendente, tende all’ascensione, pur dovendo essere interprete fedelissima della verità profonda delle cose umane.
Così facendo arte – con profondissima adesione alla missione epifanica dell’arte – si rischia la solitudine e l’ignoranza. Ma per fortuna questo artista ha incontrato un mecenate savio e potente: Antonio Menon, fondatore a Bassano del Grappa di The Bank – Istituto per gli studi sulla pittura contemporanea, già filiale Comit, oggi forziere preziosissimo di valori d’arte. Valori, non quotazioni.
Nella sede di The Bank a Bassano, Padovani sarà in mostra fino al 25 marzo 2025, con una retrospettiva folta e ricca che comprende precedenti esibizioni della serie Pandemonio e una decina di nuovi lavori inediti.
Lo scrigno bassanese di The Bank – sede anteriore di transazioni di sterco del diavolo, oggi convertito a santuario di remissioni del peccato nei lavacri di un’arte liturgica, e anzi: salvifica, come tiene a chiamarla l’artista – è scenograficamente assai efficace a contenere la teoria impressionante dei quadri di Padovani, immagini trattate con la tecnica mista – originale e personale – dell’olio, il bitume e la resina (quasi un composto antagonisticamente analogico con l’oro, l’incenso e la mirra), magistralmente evocative dei minuziosi incubi presurrealisti dei fiamminghi rinascimentali, ma riportate icasticamente alle crude visioni contemporanee, in una chiave segnica che potrebbe avere il sonoro di una saga musicale dark punk rock, a sentire le note che forse hanno accompagnato le composizioni di Padovani. Che disegnano tutte, queste saghe pittoriche, la cifra di una matericità sofferta, sostengono la potenza della materia ma non negano la disperazione della decomposizione.
Si passa, visitando la mostra, attraverso gironi popolati da agglomerati umani e belluini, ritratti di anime in sosta tra l’inferno e il purgatorio, arti e sagome mutanti, in bilico tra le funzioni fisiologiche ma al confine tra naturale e sovrannaturale. Un confine che è ben rappresentato in quanto tale, appunto, sebbene sveli un oltre che anela alla salvezza.
Padovani è natural born artist, per dirla parafrasando il cinema, ma nel suo caso è opportuna la parafrasi della parafrasi: hypernatural born artist, diremmo. E, naturalmente, quasi per paradosso, l’artista può essere dunque detto ormai un espertissimo iperrealista, poiché così abile nel cogliere la vera verità del reale, di raffinata matrice surrealista.
Abilmente retorici, nel senso della nobile precisione letteraria che accompagna le scene dei dipinti, sono pure certi titoli (quasi tutti) attribuiti dall’autore alle opere. Stelle Aperte, per esempio, che introduce a una sorta di palingenesi biblica, una rinascita dell’umanità dall’utero degli inferi, di cui al centro dell’opera si gode la speranza di una emersione liberatoria, una ascensione imperiosa, che tuttavia si interrompe al riveder le stelle, in un naufragio accennato, forse intimamente temuto, un destino di cui dovere tenere conto, nonostante lo sforzo supremo alla salvezza.
La bestia di Babilonia, procedendo senza macchia e senza paura nello stesso sogno di Padovani, è un dipinto iconico, per dirla con i critici, ma raramente la definizione risulta così vera e propria: la presenza del male è tra noi, come lo fu stata nel tempo della battaglia in cielo e della caduta di Lucifero in terra. Ma gli astanti, che affollano la stessa scena in cui tale presenza agisce, non sembrano riconoscerla. Solo l’artista la vede, nel suo sembiante spaventoso, e la denuncia allo spettatore. Essa è straordinariamente quieta, quasi innocua, nella certezza serena del Male.
Ma La fine, altro dipinto che racconta una parte cruciale della saga, è un uomo solo nella notte, in una tormenta di anime. Anch’egli riceve e trasmette la serenità della salvezza.