La prima mostra personale dell’artista olandese alla Galleria Poggiali presenta un inedito nucleo di opere realizzate durante i suoi soggiorni toscani, dal 1988 al 2000.
Firenze – ha aperto il 4 maggio alla Galleria Poggiali la prima mostra personale dell’artista olandese Karel Appel (1921-2006), fondatore del gruppo CoBrA e figura essenziale del panorama artistico internazionale. La retrospettiva ricorda la produzione dell’artista olandese in Toscana e si basa su un gruppo di opere realizzate durante i suoi molteplici soggiorni estivi a Villa Licia, la residenza acquistata nel 1988 a Mercatale Val di Pesa, nei pressi di San Casciano, per essere poi allestita ad atelier e frequentata dall’artista fra il 1988 e il 2000, anno in cui se ne separò.
La mostra rappresenta un attraversamento dei paesaggi e delle visioni toscane che hanno composto l’immaginario di un Karel Appel nell’ultimo periodo di una lunga carriera artistica, guidato dalle sue stesse parole, disseminate nell’intervista con lo storico dell’arte Rudi Fuchs, risalente agli anni 1990/91 (K.A. Ich wollte ich wäre ein Vogel) e selezionate dal curatore Helmut Friedel, con il quale la Galleria Poggiali ha collaborato anche in occasione della retrospettiva Colori nelle mani dell’artista Arnulf Rainer (inaugurata il 29 gennaio 2022), anticipazione della successiva retrospettiva Rainer – Vedova. Ora, curata dallo stesso Friedel in collaborazione con Fabrizio Gazzarri, alla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova di Venezia (23 aprile – 30 ottobre 2022). Quest’ultima ha rappresentato un’occasione inedita di incontro tra le opere di due amici, legati indissolubilmente dalla comune esplorazione dell’arte europea del secondo dopoguerra e del ruolo dell’artista, in un contesto segnato dalla tensione tra Astrattismo e Informale.
Alla Galleria Poggiali, invece, Helmut Friedel indaga più approfonditamente i punti di contatto fra Karel Appel e Arnulf Rainer, descrivendo con precisione il cammino artistico di entrambi, senza dubbio accumunati da un impeto indomabile nel lavoro e oltre quarant’anni di comune sperimentazione sulla materia e sul colore. A differenza di Rainer, che nei suoi dipinti progressivamente ricopre l’immagine di fondo, strato dopo strato, fino a seppellirla completamente, Appel parte realizzando prima di tutto una base iniziale, sulla quale poi va a sovrapporre nuovi elementi o innestare l’immagine.
Oltre a sviluppare un legame indissolubile con i luoghi in cui si trovava di volta in volta, Appel stabilisce relazioni molto profonde anche con gli artisti con i quali si trova a collaborare. E non mi riferisco solamente ai colleghi espressionisti Willem de Koonig, Robert Motherwell e Franz Kline, conosciuti nel 1957 durante il suo primo soggiorno a New York, o al suo avvicinamento a correnti come la pop art o i Nouveaux Réalistes, che si stavano formando a Parigi in quegli anni e alle quali strizzava l’occhio attraverso l’uso di objectes trouvées, giustapposizione di oggetti di recupero in assemblaggi dipinti.
Mi riferisco anche e soprattutto a personalità cosiddette “minori”, nel senso di meno conosciute, come gli artigiani e gli artisti impiegati presso il laboratorio di ceramica locale nel quale Appel si dedica alla realizzazione di una serie di sculture completamente nuova. Tale esperienza gli permette di attingere ad una conoscenza più ampia della materia, anche attraverso il sostegno dell’amico Giulio Baruffaldi, imprenditore dell’arredo a Milano, appassionato di arte e proprietario di Villa La Loggia, non troppo distante da Villa Licia, sempre in Chianti.
Questo continuo scambio di visioni del mondo, e non solo di visioni di un artista, gli consente di rimanere sempre al passo con quelle che sono le correnti artistiche dominanti e di attingere a conoscenze più ampie, inserendosi in un contesto più grande fatto di pubblico, di storia, di memoria, di storie personali. L’esperienza visionaria nel caso di Karel Appel trova espressione di sé verso il mondo materiale soprattutto attraverso la tavolozza, che gli permette di lavorare per trovare la strada giusta, restando allo stesso tempo libero e coerente, sempre alla ricerca di nuovi inizi.
La pittura significa essenzialmente togliere, semplificare. Per questo, ho sempre detto che gli unici in grado di trasformare il caos in qualcosa di positivo sono gli artisti. Partono dal caos portandolo a una conclusione positiva attraverso la semplificazione, la sottrazione. E questo include anche la distruzione, la distruzione di ciò che noi stessi abbiamo creato in precedenza.
«Nonostante la sua audacia nell’uso del mezzo pittorico, Appel rimane fedele ai compiti classici della pittura» afferma Helmut Friedel nel prologo del catalogo realizzato dalla Galleria Poggiali in collaborazione con la Karel Appel Foundation di Amsterdam.
Nel 1986, quasi anticipando i suoi paesaggi toscani, Appel mette in scena, attraverso la sua caratteristica riduzione della stesura cromatica a grandi campiture di colore che raccoglie la grande tradizione di vangoghiana memoria della pennellata strutturante, e un’espressione legata all’originaria creatività infantile – retaggio dell’esperienza vissuta dieci anni prima a Villa El Salvador, nei pressi di Lima, durante la quale poté collaborare con dei bambini alla realizzazione di un’opera monumentale – una tela di grandi dimensioni (cm 182,9 x 426,7) dal titolo Lying Nude no. 2. Si tratta di un paesaggio con le sembianze di una donna distesa e verosimilmente assopita, il cui corpo opalescente, in contrasto con lo sfondo scuro, riproduce le curve sinuose delle colline toscane tanto amate dall’artista. Una fusione estatica di corpo e paesaggio che trova illustri predecessori nelle veneri di Giorgione e Tiziano (1510 la prima/1534 la seconda), o nel successivo Déjeuner sur l’herbe di Éduard Manet (1862/63) che innalza il tema a topos della modernità, a cui faranno seguito Cézanne, Matisse e gli espressionisti tedeschi del movimento Die Brücke (solo per citarne alcuni).
Tratto distintivo delle opere di questa mostra è il riconoscimento, da parte di Appel, dell’inscindibilità dell’uomo dalla natura, del microcosmo dal macrocosmo: tematica portante del suo sofisticato immaginario filosofico.
Ogni cosa è collegata, così come lo sono “paesaggio” e “corpo”, l’uno rappresentato come una superficie bidimensionale e orizzontale, l’altro nella verticalità di una figura corporea eretta. Entrambi, però, in egual modo occupanti uno spazio nell’universo.
L’uomo e la natura sono un tutt’uno. L’albero e l’uomo stesso sono una sola cosa. Se distruggiamo la natura, distruggiamo noi stessi. Da questo… è nata l’idea di dipingere la natura, il paesaggio, come si trattasse di un viso. Mostro i colori della natura e poi vi aggiungo il viso.
A volte capita che ci sia una convergenza tra momenti del passato e momenti del presente. Le idee, la presa di coscienza e gli interrogativi non sono mai espressioni infeconde. A tal proposito, in una intervista di Michael Auping ad Anselm Kiefer, comparsa qualche anno dopo (precisamente nel 2004) in occasione della retrospettiva Heaven and Earth organizzata da Auping stesso al Forth Worth Art Museum, dell’omonima città in Texas, Kiefer asserisce che «individuare un cielo e una terra è un modo per provare a orientarci, ma lo spazio cosmico non lo capisce. È tutto relativo», esprimendo la convinzione di aborrire l’idea di una supremazia dell’uomo sul creato. Convinzione già ampiamente discussa con i due sostenitori dell’antropocentrismo Beuys e Kounellis a Basilea, proprio negli anni Ottanta. Anni in cui Appel rafforza questo concetto attraverso un’ulteriore interpretazione, arricchendolo con un nuovo mezzo espressivo.
A tal proposito, in collaborazione con il ballerino e coreografo giapponese Min Tanaka e il compositore vietnamita Dao, nel 1987 dà vita al balletto Can We Dance a Landscape? che va a rafforzare il carattere di dinamismo e temporalità attraverso la rappresentazione dell’interazione tra corpo e movimento nel paesaggio. Similmente, in Walking Figure in Landscape no. 1, Standing Figure in Landscape no. 3 e Running Through a Landscape, realizzati nel 1990 e facenti parte di Tuscan Series, si coglie ulteriormente il concetto di interazione fra corpo e movimento nel paesaggio. In tutte e tre le opere la scena si svolge davanti ad un fondale costituito da una superficie pittorica di color nero intenso, una sorta di proscenio ospitante una coreografia di lamine di colori primari e secondari tracciate con pennellate pastose e vigorose. In Standing Figure in Landscape no. 3 un grande corpo emerge in contrasto netto, quasi in rilievo, dalle profondità oscure del nero sullo sfondo, per stagliarsi nello spazio reale del paesaggio. Si tratta di tele di grande formato nelle quali il paesaggio collinare viene rappresentato in tutta la sua maestosità e vastità, e nel quale si sviluppa qualcosa.
Anche in Birth of a Landscape, altra serie di dipinti di formato più piccolo realizzata nel 1996, le lunghe pennellate che si estendono penetrando verticalmente la tela, si contorcono e prendono le sembianze di organismi pulsanti, collocandosi in un contesto più ampio, quasi mistico. Come un alchimista, Appel sembra combinare il tempo della vita con quello geologico e cosmico. La storia sembra quasi nascere sul quadro, in analogia con un linguaggio pittorico ricco di varianti, con il quale l’artista riteneva molto liberamente di esprimersi.
Accanto a tele di medie e grandi dimensioni e opere in acrilico, pastelli ad olio e acquerello su carta, Appel, come accennato in precedenza, realizza anche opere scultoree, lavorando regolarmente con entrambe le modalità rappresentative.
Opere scultoree che sono assemblaggi, per i quali si serve dei sopracitati objectes trouvées reperiti in Toscana, che dipinge o trasforma in fusioni in bronzo. Una sorta di pensiero di cui essi erano la traduzione, non soltanto oggetti materiali.
Naked Torso (1936), Relief no. 3, Flying Bird e Cat Standing on a Head (tutti e tre risalenti agli anni Novanta e qui inseriti in ordine di arrivo partendo dalla porta di accesso alla Galleria Poggiali, in via della Scala) e ancora Empathic Demon with Owl (risalente agli anni Duemila e inserito all’interno della sede dislocata in via Benedetta), non sono altro, a mio avviso, che una “scintilla” prodotta con il materiale disponibile, atta a generare un superamento del passato e del presente, così come la fusione nucleare crea un elemento “altro”, a prescindere dall’apporto di energia.
Tornando un momento all’essenziale, in conclusione, basandoci sull’analisi del lavoro di Appel in quello che è stato definito il “periodo toscano” dell’artista dal curatore Helmut Friedel, sarebbe appropriato evidenziare le corrispondenze con quel periodo della vita in cui un artista ormai affermato – con anche l’assegnazione nel 1954 del premio dell’UNESCO alla Biennale di Venezia e due partecipazioni a Documenta di Kassel (Documenta III nel 1964 e Documenta IV nel 1968) – si immerge completamente nel proprio lavoro, di fatto smettendo di commettere l’errore di aspettare che l’illuminazione gli confluisca dall’esterno, e iniziando a cercarla in se stesso, là dove tutto è in atto fin dall’inizio.
Nella storia dell’arte si parla ovunque di opere tarde. Opere in cui gli elementi sono collegati tra loro, si completano, si contrappongono, si allontanano gli uni dagli altri per meglio ritrovarsi. Si parla di opere tarde di Tiziano, di Rembrandt, di Goya, e poi ancora Cézanne, Matisse, Picasso. Di opere “passeggiate” liberamente qua e là a discrezione dell’artista, senza idee preconcette, come fossero i paesaggi collinari toscani tanto cari al pittore e scultore olandese Karel Appel, da egli stesso frequentati in uno spazio temporale relativamente ristretto.