Le emozioni primarie – gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto e sorpresa – accomunano ogni mammifero esistente, creando una connessione inscindibile tra uomo e animale. Gli esseri umani, però, sono in grado di provare anche emozioni più complesse, delle ricombinazioni di quelle primarie, dette emozioni secondarie: sono l’invidia, la vergogna, il senso di colpa, la nostalgia, la delusione, la gelosia, la speranza, l’offesa, l’ansia, il sollievo, il perdono, l’orgoglio, e così via. Sono le emozioni secondarie a renderci umani, a determinare i nostri comportamenti sociali, a muovere le nostre azioni. Talvolta, l’artista le utilizza a suo vantaggio, rendendole motore propulsivo dell’atto creativo: e così nascono opere d’arte che, generate da un’emozione, la trasmettono all’osservatore, in un circolo di scambio perpetuo in cui questa finisce per essere sublimata.
La mostra EMOTION – visitabile presso il Chiostro del Bramante a Roma fino al 1° aprile e a cura di Danilo Eccher – cerca di passare in rassegna una serie di emozioni attraverso le opere di grandi artisti e collettivi italiani e internazionali, con il taglio immersivo, accattivante e “blockbuster” che da qualche anno a questa parte caratterizza le produzioni tematiche del museo (si pensi ai progetti Love, Enjoy, Dream e Crazy). Necessaria una premessa: a causa del carattere soggettivo intrinseco dell’emotività stessa, non sempre l’emozione scaturita nell’osservatore è quella auspicata dal percorso di visita, e questo genera spesso una dissonanza. Che sia un limite dello stesso progetto curatoriale? O un fattore inevitabile?
Prendiamo ad esempio “l’attrazione verso la foresta stregata” nella videoinstallazione Sinfonia di un’esecuzione di Masbedo (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni). Il progetto del duo documenta l’abbattimento degli “alberi di risonanza” della Val di Fiemme, in Trentino, utilizzati per creare alcuni dei violini più pregiati al mondo. Gli artisti giocano con il significato ambivalente della parola “esecuzione”: da un lato, l’esecuzione di un brano musicale, dall’altra la condanna a morte della natura. Il taglio dell’albero, infatti, viene ripreso da vicino, lasciando emergere ogni dettaglio della sua corteccia, che diventa quasi morbida carne sotto l’ascia impietosa dell’uomo. Il gesto dell’uomo, dall’altro lato, è ripetuto tante volte da perdere persino la sua valenza rituale; perde di senso, come quando si ripete una parola all’infinito. Il percorso espositivo ci parla di attrazione, di stupore: e sì, è difficile distogliere lo sguardo. Ma in ballo c’è molto di più (e spetta all’osservatore il verdetto definitivo).
Uno scenario quasi horror quello di Gregor Schneider, che mette il visitatore di fronte a una serie di porte bianche, chiuse, ognuna identica all’altra: sarà lo spettatore a dover sceglierne una e, spinto dalla curiosità, lasciarsi avvolgere dal mistero, dal dubbio e soprattutto dalla paura dell’incognito. Ma non è la “paura” l’emozione scelta per questa installazione ambientale.
Il percorso prosegue con i prismi colari dell’artista coreana Kimsooja; e poi le allucinazioni nei cristalli impossibili di Tony Oursler e davvero moltissimo altro. Al piano superiore, non solo artisti storicizzati del calibro di Luigi Ontani, ma anche progetti site specific realizzati appositamente, come quelli di Nedko Solakov e Pietro Ruffo, sempre orientati a una dimensione immersiva ed esperienziale, al fine di offrire una visita più accattivante possibile. Quale emozione prova lo spettatore a questo punto? Difficile a dirsi, in un groviglio di stimoli così diversi tra loro. Ma senza indugiare (o forse indugiando giusto un pochino), sarà senza dubbio felice di distendersi nella “culla”-videoinstallazione-lampadario dai tratti paradisiaci di Laure Prouvost: qui tutto è esperienza (peccato che non sempre questa si traduce in conoscenza).
Gran finale con Inverso Mundus, la video installazione del collettivo russo AES+F, che copre tre ampie pareti dell’ultima sala. Ispirandosi alle omonime incisioni carnevalesche del 16esimo secolo (primissima forma di critica sociale populista emersa con l’avvento della stampa Gutenberg), l’opera mette in atto un tableau vivant surreale e a rallentatore. Preadolescenti e anziani che combattono in uno scontro di kickboxing; donne eleganti in abiti da cocktail torturano uomini ingabbiati; mitologiche chimere scendono dal cielo per essere accarezzate come animali domestici: con opulenza barocca, la rappresentazione reinterpreta i paradossi della società contemporanea sulla colonna sonora della Casta Diva di Vincenzo Bellini.