Fino al 16 marzo, all’ICA di MILANO, è possibile vedere “I have lost and I have been lost but for now I’m flying high” la mostra personale di Michael Stipe, il frontman dei R.E.M., curata da Alberto Salvadori. Le opere esposte, sui due piani della fondazione, sono circa 120 e alcune di esse sono state fatte appositamente per questa esposizione.
Mentre giravo nei vari ambienti, facendo delle foto da pubblicare poi sui social e mi divertivo anche cercando di farmi un autoscatto nell’opera Pouring Satyr, continuavo a chiedermi cosa avesse spinto Michael Stipe a intraprendere anche questo percorso artistico. Di fronte alle sue sculture, ai ritratti fotografici e alle installazioni era difficile per me non pensare al leader dei R.E.M. che in 31 anni ha venduto più 100 milioni di dischi, al grande musicista e al cantautore di canzoni indimenticabili.
Cercando una possibile risposta a questa domanda mi è tornato in mente quello che dice Karl Ove Knausgård nel suo romanzo “Un uomo innamorato”. Lo scrittore norvegese nel suo libro dice “Stendhal ha scritto che la musica era la forma di arte più elevata, che tutte le altre forme artistiche anelerebbero in realtà a essere musica. Era un’idea di Platone, tutte le altre forme artistiche ritraggono qualcos’altro, la musica è l’unica a possedere qualcosa in sé stessa, assolutamente incomparabile”. Purtroppo, questa considerazione sulla superiorità della musica non mi aiutava a spiegarmi perché un’artista come Stipe, che conosce quanto le canzoni siano alla portata di tutti, quanto la musica abbia un’immediatezza comunicativa e quanto possa essere pervasiva, avesse intrapreso un percorso nell’arte contemporanea.
Nella mostra ci sono due opere Desiderata2027 e Desiderata Teleprompter, che nascono da una poesia di Max Ehrman, molto conosciuta negli Stati Uniti, ed è un testo che ha significato molto per Stipe tanto da essere il punto di origine dell’intera mostra. Forse una risposta alla mia domanda è proprio in quella poesia, perché è innegabile che il linguaggio poetico, di tutte le poesie in generale, sia la cosa più vicina alla musica.
Tante canzoni sono in debito con la poesia e sono esse stesse delle poesie. Vale lo stesso per Desiderata, un’opera scritta nel 1927 che ha una storia interessante perché è stata per molto tempo dimenticata, poi stampata sui manifesti hippy negli anni ’60 per poi essere dimenticata nuovamente negli anni ’70 e ’80 e ritornare negli anni ’90 e 2000 come un insieme di consigli motivazionali in ambito lavorativo. “Credo che la poesia abbia sofferto della sua associazione a questi periodi” ha detto Stipe che ha confessato il suo desiderio di portarla nel XXI secolo, quasi a volerla salvare, e proporla “in un modo che la rendesse di nuovo fresca”. La poesia è un insieme di raccomandazioni, di atteggiamenti che ci vengono consigliati in determinate situazioni, un elenco di cose di buon senso e Stipe, destrutturandone i versi, ne ha fatto un’opera ancora più pop, quasi da indossare.
Nella chiacchierata con il curatore, che vi consiglio di leggere, Michael Stipe confessa di non temere di sembrare ordinario nel condividere i versi di Desiderata e non ha nemmeno paura di condividere con noi, spettatori delle sue opere, né i nomi e nemmeno i volti delle persone che lui reputa importanti nella sua vita, tanto da essersi ispirato per farne delle opere d’arte.
Negli ambienti del piano superiore dell’ICA troviamo, infatti, dei vasi in ceramica di differenti misure e colori, su cui sono dipinti i nomi di cantanti, artisti, attivisti, registi legati a Stipe tra i quali Madonna, Lou Reed, Laurie Anderson, Greta Thumberg, Vic Chesnutt, Rainer Werner Fassbinder. Poi sono esposti degli immaginari libri senza pagine, realizzati da Stipe con la stampatrice Ruth Lingen, che hanno sulla copertina, come fossero titoli, i nomi di Joan Didion, Gore Vidal, Elton John, Rrose Selavy (Marcel Duchamp), Man Ray, Jonathan Berger, Claude Cahun e altri. Alle pareti di un altro ambiente sono appesi molti ritratti fotografici sviluppati attraverso una serie di processi analogici dove i soggetti sono gli amici di Stipe. Sul pavimento del piano terra si trova la parte più d’impatto visivo: oltre cento sculture in gesso, tra cui si trovano delle teste che rendono omaggio a Marisa Merz.
Tutti gli oggetti vanno a comporre un ideale autoritratto di Michael Stipe e sembrano parlarci anche di lui. Libri immaginari, vasi di ceramica, fotografie analogiche, teste e sculture in gesso: cosa lega tutte queste opere? Sono tutti oggetti fragili e vulnerabili. E sicuramente è anche di questo che vuole parlarci Michael Stipe: della sua vulnerabilità. Vuole forse dirci che come nel suo processo artistico è possibile trasformare la scarsa resistenza di un libro, la caducità di una foto analogica, la friabilità di un pezzo di gesso e la fragilità di un vaso, così possiamo pensare alla vulnerabilità come ad un superpotere. Uno di quelli che può aiutarci a trovare il giusto modo per esprimerci e poter arrivare a tutti. Non è la stessa cosa che succede con la musica?