Dopo la grande visibilità di Sanremo, dove è arrivato con la sua aria aliena e il brano che dà il titolo al disco, Lucio Corsi si conferma come uno degli oggetti più non identificati della musica italiana. E per fortuna. Perché in un panorama che ruota tutto attorno alla performance, all’identità forte, al voler essere qualcosa a tutti i costi, lui arriva con una manciata di canzoni che sembrano venire da un mondo parallelo fatto di ricordi scoloriti, amori veri e storie raccontate a bassa voce. Volevo essere un duro non è un disco da classifica, ma è un disco che resta. È un album che ti si infila sotto la pelle come la nostalgia delle estati finite, come le risate con un amico che non senti da anni. C’è qualcosa in queste nove tracce che resiste, che non si piega. Forse perché non ha mai provato a imporsi, ma solo a esserci.
Lucio non ha cambiato pelle, ma ha fatto pulizia. Ha tolto il trucco, ha lasciato a casa gli abiti da spaccone glam, e si è presentato con le mani in tasca e una voce che non ha più bisogno di effetti speciali. Non ci sono impalcature estetiche, né scuse concettuali. Solo storie, piccoli universi personali, personaggi al limite tra la memoria e l’invenzione, canzoni che sembrano fotografie scolorite trovate in una scatola di scarpe. Ma non c’è alcuna posa nel suo modo di guardare al passato: è uno sguardo gentile, pieno di riconoscenza, che non cerca di riscrivere i ricordi, ma di abitarli ancora un po’.

Musicalmente, è tutto calibrato, asciutto, ma mai vuoto. C’è spazio. Aria. Silenzio. E quando arrivano gli archi, i fiati, le code strumentali, lo fanno come ospiti educati: si siedono, ascoltano, entrano quando è il momento giusto. La produzione – firmata ancora una volta da Francesco Bianconi – è una carezza che non cerca mai di prendersi la scena. E questa leggerezza, questa libertà dal dover dimostrare qualcosa, diventa la vera forza dell’album. È come se Lucio avesse smesso di cercare la canzone perfetta, e avesse finalmente trovato il modo più sincero per scrivere. A suo modo, a tempo suo.
“Sigarette” è un manifesto: ironica, malinconica, autentica. Una canzone che ti fa sorridere, ma poi ti si stringe in gola. “Tu sei il mattino” è una delle cose più tenere che abbia mai scritto, mentre “Francis Delacroix” è la prova che Lucio ha un talento raro nel trasformare le persone in personaggi, e i personaggi in archetipi emotivi. “Let There Be Rocko”, poi, è un piccolo cortocircuito poetico tra nostalgia e slancio, con la voglia di essere qualcun altro, ma senza mai rinunciare a sé stessi. E “Nel cuore della notte” chiude il tutto come si chiude una bella lettera: con calma, con rispetto, con una nota lunga che ti accompagna fuori, senza sbatterti la porta in faccia.
Volevo essere un duro è un disco che parla della fatica di crescere senza diventare cinici, della bellezza delle fragilità, dell’amore come resistenza quotidiana. E in questo momento storico, dove tutto deve essere brillante, forte, rapido, performante, Lucio ci regala un tempo diverso. Un tempo lento, morbido, a bassa voce. E ci dice che non serve essere duri per essere forti. Anzi, che forse la vera durezza oggi è mostrarsi per quello che si è, con tutte le proprie esitazioni, i propri inciampi, le proprie stranezze.
Lucio Corsi non voleva essere un duro. E non lo è. È qualcosa di molto più raro: un artista che non ha bisogno di maschere, perché ha imparato a guardarsi allo specchio con dolcezza. E questo disco è lo specchio in cui anche noi possiamo rifletterci, senza paura di sembrare fragili. Perché lo siamo tutti. E non c’è niente di male.