Luigi Serafini al Mart, il sogno lucido di un grande visionario

Non poteva che essere lui, Vittorio Sgarbi, a portare Luigi Serafini, con una mostra che si potrebbe a buon diritto definire epocale, in un museo pubblico, il Mart (“Il sogno di Luigi Serafini”, aperta fino al 20 ottobre, a cura di Andrea Cortellessa, Denis Isaia e Pietro Nocita), con più di cento opere tra pittura, scultura, installazioni, oggetti di folle design serafiniano, e poi video, foto, quadri digitali, disegni, diorami, luci al neon, 60 tavole del solo Codex Seraphinianus (l’opera che lo rivelò all’arte rendendo la sua opera celebre, se non immortale, in tutto l’universo mondo), che attraversano le sette sale del museo con l’esuberanza, l’allegria, la sfacciata illogicità di chi sa di poter conquistare il pubblico senza bisogno di altri artifici se non quello di una logica ferra benché tutt’altro che lineare, di un continuo ripetersi di colpi di scena degni di un teatro dell’assurdo condito in salsa neopop, di un susseguirsi ininterrotto di esseri difformi o deformi, di oggetti non identificati e di esseri mutanti, di metamorfosi, sogni, visioni lucido-lisergiche e segni indecifrabili, di incroci botanico-zoomorfi e zoomorfo-oggettuale, di animali fiabesco-mitologici, di scritture illeggibili, di tavole enciclopediche dell’inverosimile, di esseri doppi e tripli e quadrupli, di realtà parallele e di giochi enigmistico-visivi, di immagini onirico-stralunate, di  gesti impossibili, di colpi di genio e di idee pazze e stralunate quante fatichiamo a vedere anche in quel contenitore di assurdità che è diventato Internet. E di sogni, sogni, sogni: trasportati su tela, in scultura, in disegno, in oggetto o in foto.

Luigi Serafini

Non poteva che essere lui, dunque, Sgarbi, che da sempre sostiene l’eccezionalità di un artista che nel panorama italiano è ancora, paradossalmente, sottoconsiderato, ma che nel corso della sua lunga carriera ha avuto, caso forse unico nel panorama artistico italiano, prefazioni e analisi critiche da personaggi e intellettuali come Italo Calvino, Umberto Eco, Federico Zeri, Federico Fellini, Giorgio Manganelli, Roland Barthes, Richard Hofstadter, per citarne solo alcuni, e il cui Codex, mastodontica enciclopedia fantastica, redatta in un linguaggio impossibile da leggere e dalla fama ormai quasi mitologica, vanta – come la Settimana enigmistica i tentativi di imitazione – innumerevoli siti e commentari e fan pages in giro per il web, dei quali molti dedicati al vano tentativo di decrittarlo e di trascriverlo in una delle tante lingue conosciute (in rete ci sono migliaia di siti che ne parlano, redatti in una quarantina di lingue diverse, comprese l’amarico, il tamil, l’hindi e il khmer), e che può vantare, in tempi di copyright ferreo, anche un’edizione fake cinese, che fino a poco tempo fa circolava tranquillamente sul sito Ali Baba…

Prima della mostra al Mart, però, va detto, Serafini di recente aveva avuto anche un altro, importante, riconoscimento da un museo pubblico, il Macro di Roma, che dimostra come oggi sia il tempo in cui all’artista del Codex vengono tributati gli onori che ampiamente merita anche in Italia: la mostra Una casa ontologica (aperta fino al 25 agosto), a cura di Luca Lo Pinto, nel quale l’artista ha ricostruito, in maniera spettacolare e immaginifica, la sua celebre casa-museo romana, a due passi dal Pantheon, dove l’artista vive dal 1987, non solo zeppa di opere straordinarie ma essa stessa concepita come un grande contenitore-museo dell’improbabile e dell’immaginifico (giustamente paragonata da Camilla Baresani sul Foglio a Casa Balla, oggi musealizzata dal museo Maxxi), testimonianza di 40 anni di vita e di lavoro dell’artista, e che oggi rischia di scomparire per via di un contenzioso con la proprietà dell’immobile, l’Ordine dei Cavalieri di Malta, che vorrebbe riavere i locali, e sul quale già sono girate petizioni pubbliche e prese di posizione di intellettuali, critici, scrittori, artisti affinché venga salvata e salvaguardata come un “bene culturale”, quale a tutti gli effetti è.

Vita immaginaria di un artista fuori dal comune

Luigi Serafini <em>Tavola del Codex Seraphinianus<em> Collezione Franco Maria Ricci Labirinto della Masone Fontanellato Parma

Ma partiamo dunque dall’inizio: chi è Luigi Serafini, l’artista che, come ha scritto Vittorio Sgarbi, “vive in una perenne condizione di miraggio”, e che cos’è il Codex Seraphinianus, la sua opera più celebre e più citata? Le biografie che Serafini va seminando nei molti libri e cataloghi che lo riguardano dicono già molto della sua propensione alla confusione consapevole e volontaria tra fantasia, realtà, mito, immaginazione: nato a Roma nel 1949, racconta di essere caduto giocando a pallone all’età di 6 anni, di essersi tagliato una mano e di aver deciso allora di cominciare a disegnare; di aver ricopiato, adolescente, più di 600 immagini da libri illustrati, enciclopedie, dispense, giornali; di aver frequentato un collegio di Scolopi, poi la facolta di Architettura, di aver molto viaggiato, e finalmente, “nel 1976, “dopo aver chiuso la porta di casa”, di aver deciso di redigere un’enciclopedia immaginaria, il Codex appunto. Ma sono molti gli aneddoti al limite o oltre il surreale nella sua biografia.

Luigi Serafini <em>Tavola del Codex Seraphinianus<em> Collezione Franco Maria Ricci Labirinto della Masone Fontanellato Parma

“Mio padre”, mi raccontò ad esempio lui stesso qualche anno fa, “costruì con le sue mani il primo televisore. Lo fece in casa, con tubo catodico, schermo e tutto. Io seguii la costruzione di questo mostro meccanico, con trepidazione e un po’ di angoscia… Vidi letteralmente nascere la televisione vicino alla cucina, quando si accesero poco a poco le valvole termoioniche. Ricordo le prime immagini, quando finì di montare quell’aggeggio: erano rovesciate. Così, per un po’, fummo costretti a vedere la tivù al contrario”.

Questo aneddoto è interessante per comprendere tutta la filosofia serafiniana: è, infatti, la (prima) costruzione – o ricostruzione – di un mondo al contrario, per il Serafini bambino: un mondo dove realtà e fiction si confondono e si rincorrono senza sosta, ma non si incontrano mai, perché uno è lo specchio (perfetto e rovesciato) dell’altro; un mondo bizzarramente rivesciato su se stesso, dunque, sospeso tra realtà e finzione. È la sua base di partenza, forse, per la creazione di un altro punto di vista sul reale, fondamentale per capire la genesi di opere considerate da sempre “visionarie”, “fantastiche” “allucinatorie”.

Il Codex, enciclopedia visionaria all’insegna dell’improbabile

Luigi Serafini <em>Tavola del Codex Seraphinianus<em> Collezione Franco Maria Ricci Labirinto della Masone Fontanellato Parma

Serafini inizia a scrivere il Codex all’età di 27 anni. È il 1976, e l’artista sta a Roma, in una mansarda al quinto piano di una stradina che si chiama via Sant’Andrea delle Fratte, nel cuore della Roma barocca, dove anche le vie e i palazzi hanno conservato i nomi e i ricordi della controriforma dei Papi. Qui, in una domenica qualsiasi, Serafini decide di cominciare, quasi per caso, quella che incontestabilmente diventerà la sua Grande Opera, la sua summa poetica, visiva e filosofica: quell’enciclopedia dell’assurdo, del fantastico, dell’impossibile che è appunto il Codex Seraphinianus (che verrà poi pubblicata in prima edizione da quell’editore raffinatissimo e visionario che era Franco Maria Ricci, e solo in seguito ripubblicato da Rizzoli), accuratamente postillata e commentata in quella “grafia corsiva minuziosa e agile e (dobbiamo ammetterlo) chiarissima, che sempre ci sentiamo a un pelo dal poter leggere e che pure ci sfugge in ogni sua parola e ogni sua lettera”, come scrisse Italo Calvino, scrittura folle e astrusa e insieme dolce, elegante e bella da vedere al punto che ci pare di poterla in ogni momento, se non propriamente leggere, per lo meno comprendere nel suo significato d’insieme, che per anni sedurrà e terrà impegnati decine di critici, di studiosi, di crittografi nell’impossibile tentativo di razionalizzarla e di tradurla in una delle tante lingue a noi conosciute.

Una delle prime edizioni del Codex edita da Franco Maria Ricci

“Mi chiama un amico e mi dice: passo a prenderti che andiamo al cinema. E io senza sapere bene perché gli dico: no resto a casa, devo fare un’enciclopedia. E quando metto giù il telefono, comincio davvero a disegnare”, racconterà Serafini. “Comincio da un uomo, poi un cacciavite, una foglia, un ingranaggio. E scrivo, riga dopo riga, didascalie immaginarie, scivolando in automatico: segni danzanti e pause bianche… Una tavola dopo l’altra, senza sbagliare mai, per giorni, settimane, mesi”.

Così, con la stessa naturalezza con cui il mondo reale si trasfigura, nella memoria dell’artista, in storia, mito, leggenda, dalla sua fantasia nasce quel mondo, sì, immaginario, folle, utopico, distorto, a tratti un po’ inquietante, teratologico, un mondo in cui la storia ha perso il suo corso naturale per trovarne un altro, parallelo e instabile, in perenne equilibrio tra paradosso e finzione, “di cui ogni scintilla è un’invenzione, ogni fiammella una trovata allusiva e sconcertante”, come ha scritto Federico Zeri, che, come il suo linguaggio, sempre ci sentiamo sempre “a un pelo dal poter leggere e che pure ci sfugge”.

Luigi Serafini <em>Città Lagunare<em> 1995 Collezione privata

Il primo accostamento del Codex (ma anche di tutte le sue opere successive, che potrebbero essere lette come la trasposizione delle immagini del Codex nella realtà, sotto forma di scultura, di pittura, di installazione) è con la struttura canonica dell’enciclopedia, ovvero con le immagini dei libri scientifici, i capitoli di anatomia dell’occhio, dello stomaco, del cuore, o i libri di scienze naturali e di botanica. Il Codex affronta infatti, nella sua rigorosissima struttura, tutte le categorie dello scibile, sia nel campo delle scienze naturali che in quelle umane: flora, fauna, fisica, meccanica, anatomia, mitologia, scrittura, alimentazione, abbigliamento, architettura: ogni aspetto di questo misterioso universo parallelo (quello serafiniano, appunto) è qui sviscerato, descritto, minutamente illustrato e (seppure in una lingua a noi sconosciuta) analiticamente descritto nel Codex; in un un sorprendente mescolamento continuo, incessante e reciproco di tutte le categorie e di tutti gli aspetti del reale: “Come l’Ovidio delle Metamorfosi”, ha scritto ancora Italo Calvino, “Serafini crede nella contiguità e permeabilità d’ogni territorio dell’esistere. L’anatomico e il meccanico si scambiano le loro morfologie: braccia umane, anziché in una mano, finiscono in un martello o una tenaglia; gambe si reggono non su piedi ma su ruote. L’umano e il vegetale si completano; vedi la tavola della coltivazione del corpo umano: bosco sulla testa, rampicanti su per le gambe, prati sul palmo della mano, garofani che fioriscono fuori delle orecchie. Il vegetale si sposa al merceologico (ci sono piante dal fusto‑caramella incartata, dalle spighe‑matita, dalle foglie‑forbici, dai frutti-fiammifero), lo zoologico al minerale (cani e cavalli per metà pietrificati), e cosi il cementizio e il geologico, l’araldico e il tecnologico, il selvaggio e il metropolitano, lo scritto e il vivente”.

Un’opera omnia all’insegna dell’assurdo

Un mondo incantato, folle e bizzarrissimo, come sarà tutta l’opera successiva di Serafini (qui ben documentata, con ottimo allestimento, al Mart), dove i pesci hanno forma d’occhi che escono dalla superficie del mare come il periscopio d’un sommergibile, dove Teseo, l’eroe greco che sconfisse il Minotauro, danza con lui in un ultimo folle tango, dove i gomitoli di lana hanno gambe e piedi per correre assieme ai loro figli (la Famiglia Gomitaly), dove esistono strani uomini “mangiatori di luce blu”, dove i cartelli stradali sono formati da bizzarri esserini dagli stessi colori e dalla stessa forma del cartello, che vi si arrampicano dentro come fosse la loro casa; e ancora dove i musicisti eseguono concerti con strumenti a forma di enormi frutti (Concerto con tutti i frutti), dove gli uomini e le donne hanno pesanti menhir sulla testa che si portano in giro con nonchalance come strani copricapi, dove gli uccelli possono avere tre teste o una coda a foggia di lancia per bucare le uova, dove le mucche hanno code a forma di zucchina e i gal-galline sono invece dotati di due teste: una a forma di gallo, e l’altra, dove normalmente andrebbe il sedere del gallo, di gallina, e viceversa; dove l’arcobaleno non è un fenomeno naturale, ma da strana mondovisione, forse di origine meccanica, forse elettromagnetica, o forse di chissà che diavoleria celeste, con tanto di misteriosa macchinetta volante atto a crearlo; dove gli uomini prendono via via la foggia delle proprie abitazioni, fino a identificarvisi completamente, dove i cervi posseggono foglie che crescono loro sulle corna, benintesto sempre che la testa sia piantata in vaso, dove esistono pesci con scafandro incorporato e pesci con la coda di cavallo, pesci con la lisca a forma di scopa e pesci piatti per saltare sull’acqua, e così via.

E dove esistono, infine, macchinari per costruire di tutto, purché sia completamente e sommamente inutile: e qui, davvero, il Serafini che in seguito sarebbe diventato anche designer, sì, ma dell’assurdo, non avendo egli inventato mai, come ha scritto Sagrbi, “un bicchiere in cui si potesse bere, una sedia dove ci si potesse sedere, un vaso che potesse contenere qualcosa”, Serafini ha dato forse il meglio di sé: elaborando complicatissime macchine, o alle volte macchine-animali, o macchine-esseri umani, la cui complessità è sempre direttamente proporzionale all’inutilità, alla vacuità, alla balordaggine del fine a cui dovrebbero servire, avvicinandosi in qualche maniera alle celebri macchine inutili di Bruno Munari, giacché, come scrisse lo stesso Munari, “le macchine utili sono spesso noiose con il loro ritmo uniforme costante”.

Ecco allora che l’opera stessa di Serafini, di cui questa straordinaria mostra al Mart ci offre una sorta di sintesi totale, ci appare davvero come un grande, inesausto, pluristratificato e complesso inno non solo alla dimensione dell’utopia, del fantastico, della creazione di altre realtà, parallele a quelle comunemente accettate, provocata dal semplice spostamento del punto di vista su ciò che chiamiano reale, e sul rimescolamento continuo e incessante dei diversi livelli, generi e ambiti linguistici e scientifici; ma anche un inno alle infinite possibilità del linguaggio – qualsiasi esso sia – di reintepretare la realtà, di piegarla e modellarla in maniera funzionale alle proprie esigenze e alla propria visione del mondo.

Così, sotto il segno dell’utopia (quell’utopia che col tempo Serafini ha imparato a considerare “un alimento, un nutrimento fondamentale”) e dell’ambiguità, il cerchio serafiniano si chiude. “Mi piaceva l’idea di giocare con la vita, di assecondare le continue trasformazioni dell’uomo e della natura. L’idea di non limitarmi a cambiare il mondo, come si diceva nelle piazze di allora, ma addirittura a inventare un altro da principio”, ha detto una volta l’artista.

Luigi Serafini <em>Ariadne auf Naxos<em> 1998 Collezione VAF Stiftung

Nel suo linguaggio fatalmente impossibile da decifrare, in mezzo a macchine impossibili da costruire e delle quali nessuno potrà mai scoprire il funzionamento nascosto, tra animali mai visti, una nflora e una fauna meravigliosa, animali inesistenti, popoli nei quali si mescolano tutti i caratteri e tutte le razze del mondo, oltre a quelle mai viste in nessun mondo, e dove i caratteri umani si stemperano in quelli animali, quelli animali in quelli vegetali, quelli vegetali in quelli meccanici e così via all’infinito, l’utopia di Serafini prende lentamente, ma inesorabilmente, forma, si srotola sotto i nostri occhi con la naturalezza dei grandi racconti mitologici e delle grandi epopee d’altri tempi, inventa forme, linguaggi, giochi sintattici e matematici che, da oggi in poi, non saranno mai più incomprensibili: saranno, semplicemente, e incontestabilmente, serafiniane: ovvero appartenenti al folle, folle folle universo di quell’artista unico e non replicabile e che è l’autore del Codex.

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