Marco Lodola, prima che essere un artista pop, è un artista rock. Non è l’unico, ma in Italia è stato il primo, egli detiene dunque un primato ed è il legittimo portatore di una corona: Lodola regna come un sovrano nel paesaggio iconografico artistico che si è andato conformando, tra derive e ricongiunzioni, nella storia della musica popolare italiana degli ultimi decenni.
Se i Rolling Stones, David Bowie, Lou Reed, e altri, hanno avuto Andy Warhol, ecco che gli 883, i Timoria, Luca Grignani, Ron e i Bluvertigo – ma anche altri – hanno avuto Marco Lodola, quale interprete delle passioni e dei sentimenti scalfiti nel solco italico del rock’n’roll che, come nessun altro genius loci in Europa, ha saputo interpretare la musica del diavolo in una maniera così dolce e spietata, unica e originale. Le sculture luminose di Lodola, genialmente concepite fin dagli anni Ottanta come remake neofuturisti per rilanciare l’arte come comunicazione della nuova modernità, sono oggi la cifra riconosciuta di una intera mini-epopea, quella che celebra gli ultimi decenni che hanno fatto la storia della musica, delle mode e degli stili della contemporaneità.
E a proposito dei Rolling Stones, ti piace il video dell’ultimo disco?
Si, moltissimo. I Rolling Stones, per me che sono un rockettaro, sono davvero rassicuranti, Mick Jagger ha ottant’anni suonati, Keith Richard quasi, e dopo una vita di sesso, droga e rock and roll guarda come sono vispi. L’ultimo video, molto ben fatto, con quelle immagini che scorrono on the road dai concerti di tutta la loro vita sui palchi, è davvero un messaggio di positività.
Tu sei il vate italiano dell’arte nella musica Pop, ma dovendo tornare ai fondamentali, sei più rollingstoniano o beatlesiano?
Se devo portare qualcuno sulla luna ci porto i Beatles, ma per molto tempo, in gioventù sono stato davvero sfegatato per i Rolling Stones, e anche un po’ sfigato con loro, infatti ho un rammarico.
Quale?
Nel 1998, quando fu annullato il concerto degli Stones previsto a San Siro, Claudio Cecchetto mi aveva fatto il gran favore di accreditarmi per andare a intervistare Mick Jagger. Ero letteralmente esaltato, ma la data fu cancellata all’ultimo momento, perché i medici avevano impedito al cantante di esibirsi, e io, come altre decine di migliaia di fan, ci rimasi malissimo. Peccato, gli avrei dato un mio catalogo, un grande onore e un privilegio…
Sarai dunque appagato dalla sintesi fraterna che informa il disco degli Stones, con gli interventi di Paul Mc Cartney nell’incisione, oltre che della voce di John Lennon, mi pare, mixate con registrazioni delle ultime prove di Charlie Watts, insomma un tributo totale a un’epoca intera…
Ma certo, altro che rivali, come hanno sempre detto tutti. Stones e Beatles erano amici, condividevano le stesse passioni per la stessa matrice musicale, il blues rock, il rythm and blues, generi nati nell’America degli schiavi che hanno lasciato un segno indelebile nella storia della musica contemporanea, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta.
E poi anche nell’arte: Ron Wood, chitarra ritmica degli Stones, è un pittore astratto che fa mostre, ha mercato.
Si, certo, un buon espressionista astratto, ma diciamo pure che parte bene, come celebrità…
E che mi dici della strana coincidenza che abbiamo rivelato sul nostro giornale: un video di un gruppo italiano, i Sete, realizzato oltre un quarto di secolo fa praticamente identico a quello che oggi propongono gli Stones con l’ultima fatica.
Posso solo dire che un bravo artista copia, un genio ruba. Tutti copiano, siamo una cosa sola, un fil rouge…
Intertestualità, la chiamerebbero i filologi…
Esatto. E in questo caso non è un filo che unisce i Sete agli Stones, ma una corda di chitarra.
Lungo questo filo che si dipana e si estende, quali saranno le tue prossime tappe di artista rock?
Ho finito al Campo Volo di Ligabue i ritratti in scultura luminosa di Zucchero e dei Pinguini tattici nucleari, ultimi di una serie che si va formando sulla storia internazionale del rock. Una sorta di colonna sonora della mia vita come artista: la musica.
Che è anche profezia, come a Siena all’ultimo palio, dove sei stato chiamato per realizzare il cencio e lo hai rappresentato con una testa di cavallo nero sullo sfondo di un pubblico indistinto delle contrade.
Si, come a un concerto rock, appunto, con la star in primo piano e il suo pubblico. Il bello è che ha vinto il palio l’Oca con un cavallo nero scosso, arrivato al traguardo senza fantino, acclamato dai sostenitori della contrada proprio come una stella del rock. Gianna Nannini era impazzita per la vittoria della sua contrada e in molti poi mi hanno chiesto come avessi fatto a intuire la coincidenza di questa vittoria nella mia rappresentazione.
La storia del rock è fatta di coincidenze fatate.
Proprio così.
Altre coincidenze che si avvereranno?
Non so se ci saranno altri avveramenti, ma sto preparando la mia partecipazione a una grande collettiva a Palazzo Ducale, a Genova, per i cento anni della Sampdoria, poi una mostra a Roma, da ottobre ad aprile dedicata a Warhol, dove ci sarò anche io, nipotino della Pop Art. E poi c’è stato un grandissimo evento a Milano, di cui si è parlato poco, ma Woody Allen ha suonato al Blue Note con la sua jazz band. Nick the Nightfly, direttore artistico del locale, mi aveva chiamato per chiedermi di dedicargli una scultura luminosa da esporre alla serata. Io l’ho fatta, e tanto per cambiare non sono riuscito a essere presente. Come quella volta al concerto degli Stones, in cui l’assente era Mick Jagger. Mi tocca sempre la sfiga di non riuscire a incontrare i miei miti, però mi hanno detto che Woody ha apprezzato molto l’opera, e anche questa volta, almeno, ho incassato una grande soddisfazione lo stesso.
Insomma, una vita rock per l’arte costellata di coiti interrotti…
Si può dire così, però, ricordando Casanova, mi pare, che diceva che la cosa più bella dell’amore è fare le scale, dico anche che la stessa cosa vale per l’arte: la vera bellezza del lavoro è il progetto. Una volta realizzato diventa bello solo pensare a un’altra cosa da fare.