In un mondo che vede Napoli a Bergamo solo per una partita di serie A, l’Accademia Carrara ha voluto premiare i suoi visitatori con una mostra dai tratti interessanti (Napoli a Bergamo, Uno sguardo sul ’600 nella collezione De Vito e in città, aperta fino al 1 settembre 2024), e che, soprattutto, offre degli spunti di approfondimento che riescono a legare le due città ben più strettamente di quanto non si possa credere.
Da grande appassionato di Caravaggio e di tutto ciò che la presenza del maestro lombardo in questa regione ha comportato a livello pittorico, ho sempre avuto una predilezione particolare per la declinazione partenopea. È mia personalissima convinzione, infatti, che la cultura caravaggesca abbia effettivamente lasciato un segno maggiore a Napoli rispetto a tutte le altre città che ha saputo conquistare, forse anche più di Roma, restando un trend dominante per tutto il XVII secolo, anche quando questo inizia a prendere svolte più classicheggianti da un lato o spiccatamente barocche dall’altro.
Pensiamo, ad esempio a due autori tra tutti: Battistello, al secolo Giovanbattista Caracciolo e lo Spagnoletto, all’anagrafe Jusepe de Ribera. Sono i due massimi interpreti della cultura legata a Caravaggio in terra partenopea, tanto che il primo, Giovanbattista Caracciolo, viene soprannominato dalla critica moderna “Caravacciolo” proprio per essere stato designato da molti studiosi italiani ed internazionali come il pittore che ha maggiormente compreso ed interiorizzato la lezione del Merisi, non solo da un punto di vista di uso del chiaroscuro ma soprattutto da un punto di vista di tecnica pittorica. Lo testimonia un capolavoro su tutti e mi riferisco allo straordinario San Govanni Battista nel deserto che ho avuto il piacere di poter vendere nella mia carriera a un importantissimo collezionista estero e che ora figura nella raccolta del più grande antiquario al mondo.
De Ribera, il maestro nato a Xativa e che realizza la piena maturità della sua carriera proprio a Napoli, al contrario si ciba delle immagini di Caravaggio, attinge a piene mani a quel catalogo infinito di figure di ultimi e derelitti ma le carica di materia, ne accenta le rughe e le grinzosità della pelle con accumuli di paste che in alcuni dipinti arrivano a creare spessori di diversi centimetri sulla tela. Con questo splendido parallelo tra i due massimi esponenti di questa corrente culturale a Napoli, si apre la mostra della Carrara, due dipinti che peraltro conosco molto bene in quanto provenienti da una collezione privata alla cui formazione, tutti noi mercanti abbiamo più o meno direttamente contribuito.
La presenza delle opere provenienti dalla raccolta De Vito è l’introperfetta per poter poi comprendere meglio lo sviluppo del percorso espositivo che vede un suo snodo importantissimo nella sala dove sono allestite, sulla stessa parete, due tele monumentali: La sacra famiglia di Giordano e La discesa dalla croce di Matti Preti, opere fondamentali per poter analizzare come nella seconda metà del Seicento i due maggiori artisti del momento decidessero di operare in maniera totalmente diversa.
Dove Luca sembra già avere in embrione lo sviluppo della sua personalissima idea di barocco, il Cavalier Calabrese (come veniva soprannominato Preti) resta ancora legato a soluzioni che dipendono in maniera sostanziale dalla rivoluzione merisiana.
Nella stessa sala si può ammirare un’opera magistrale di Bernardo Cavallino, una Santa Lucia che da un lato tocca le forme classiche inaugurate da Massimo Stanzione nelle sue mezze figure di Sante e dall’altro strizza ancora l’occhio al caravaggismo.
Ma è ancora una volta Giordano che stupisce in questa parte di mostra. La collezione De Vito ha impreziosito la sua presenza a Bergamo con il prestito di una delle opere più rare di “Luca Fa Presto” (così denominato nel Settecento per la rapidità con cui eseguiva le sue tele, ndr), una tela che dobbiamo definire decisamente unica nel catalogo del pittore napoletano, che con le sue “figure in un interno” della Scena di taverna, di Luca Giordano (1634-1705), olio su tela strizza fortemente l’occhio alla tradizione fiamminga che, con David Teniers e Van Ostade, si impone in tutta Europa come un trend collezionistico di assoluto successo. È in particolar modo la figura della bevitrice che sconvolge più di tutto perché è una citazione diretta da Rembrandt, artista che quindi doveva essere ben noto tramite incisioni e dipinti al nostro Luca, che dimostra in questo caso di avere una grande informazione su quali fossero gli autori internazionali di maggior importanza.
Per quei pochi che ancora si destreggiano nel complicato lavoro del conoscitore, questo lavoro rappresenta una gioia per gli occhi ed un catalogo interessante per apprezzare l’eclettismo di Luca Giordano, semmai ve ne fosse stato bisogno.
Un dipinto che funge da prologo al vero e proprio apice della mostra, che si realizza nella sala dedicata al ciclo di Pedrengo e che ci offre una panoramica chiarissima sull’attività di un precocissimo Luca. Le quattro tele, normalmente collocate all’interno dell’abside di Sant’Evasio nel paesino in provincia di Bergamo, vengono esposte al pubblico per la prima volta e ci deliziano mostrandoci un Giordano fortemente impressionato da Ribera che tende a rievocare con un sapiente e violento uso del chiaroscuro.
Avvicinandosi per ammirare da vicino i particolari tecnici di questa sua fase, si rileva immediatamente un intensivo uso del nero fumo per i bruni, che diventa un vero e proprio marchio di fabbrica della sua fase giovanile e che andrà perdendo nel corso della sua evoluzione barocca.
In queste quattro scene di martirio (Lapidazione di San Paolo, Martirio di San Bartolomeo, Sant’Andrea deposto dalla croce e Martirio di San Pietro), il linguaggio è ancora marcatamente caravaggesco e testimonia, una volta in più, quanto Napoli si fece permeare da questa rivoluzione pittorica. Dopo questa sbornia di altissima qualità pittorica, che vi giuro è una cosa mai vista, il tono si abbassa di molto, tanto da essere costretti a transitare malinconicamente per un outro dedicato al Nicola Malinconico, allievo ahimè poco dotato del mitico Fa Presto… una sala totalmente inutile se non per fini filologici.