L’ineluttabilità del destino è parte della tragi-commedia umana. Fin dai tempi antichi questo concetto era utilizzato per raccontare storie e intessere le trame di mitologie che avrebbero condizionato e dato forma al modo di pensare dell’uomo occidentale. Il destino ineluttabile serviva alla società per far comprendere che certe scelte, al di là del nostro potenziale senso sociale e dei nostri sforzi, non sono interamente nelle nostre mani e che, in certi casi, l’unico modo per uscirne è attraversarle e decidere in che modo farlo. Di questo saremo sempre padroni.
L’infinito volgere del tempo, mostra di Carlo Zoli curata da Greta Zuccali e attualmente esposta a Palazzo Guadagni Strozzi Sacrati di Firenze fino al 13 aprile, affronta tra le varie tematiche questo concetto attraverso le sculture in terracotta dipinta, decorate in foglia d’oro dall’artista faentino. Zoli non può riplasmare la storia che racconta, ma può decidere come rappresentare i suoi personaggi: ecco che le figure degli dei e degli uomini dell’epoca classica greca e romana prendono vita dalla terra – richiamo biblico di creazione adamitica – e si mescolano alle accese resine colorate col fine di richiamare i quattro elementi. Zoli è un artista alchemico che modella l’argilla per darne le fattezze del bronzo: le sue sculture, infatti, ben presto perdono la semplicità del loro materiale e diventano opere nobili che si ricoprono di decorazioni e intagli degni di un orefice, spolverate con foglia d’oro e ricoperte di gesso e metalli.
Per questo motivo, Zoli va alla costante ricerca dell’umano, proponendo una serie di lavori che navigano nel mare della storia e della mitologia antica in un vortice cronologico in cui il tempo si svela nella sua circolarità. Non esiste più un prima e un dopo, soltanto una serie ininterrotta di attimi che si susseguono senza essere figli o genitori. Questa concezione del tempo, spiega l’artista, è propria della definizione greca di kairos, ovvero attimo o occasione, che si contrapponeva a quella, tra le altre, di Chronos, il tempo lineare della storia in cui da un’origine si passava al momento successivo in un progresso e una crescita continui. In questo calderone di circolarità, l’uomo, creatura protagonista delle sculture di Zoli, affronta il proprio destino – o vi soccombe – rievocando il suo ruolo in rapporto alle divinità antiche.
Kairos è il momento “opportuno o supremo” nello scorrere del tempo, quel momento intermedio tra due situazioni di normalità (o di tedio) in cui accade qualcosa di inaspettato e magnifico. È un’occasione quasi montaliana quella di Zoli: trovare quell’istante in cui si forma una reminiscenza personale che riporta a una memoria collettiva e che testimonia della circolarità di tempi e situazioni. Se posso continuare a immaginare e produrre opere che provengono da un lontano passato, dimostro che il legame con esso è ancora vivo, che la circolarità non è un concetto astratto, ma si dimostra attiva nel recupero di storie che si ripetono perché così è stato stabilito.
È la teoria contenuta in Gaia Scienza di Nietzsche, quella dell’eterno ritorno in cui un demone viene a visitarci per svelare il segreto dell’esistenza: “l’eterna clessidra viene sempre capovolta e tu con essa, granello di sabbia”. In questa concezione della natura umana, dove ognuno è piccolo granello sbattuto sopra e sotto da mani più grandi, da movimenti e forze più grandi – la stessa gravità che spinge il granello verso il basso, nonostante sia così leggero – ci toglie la possibilità di una piena realizzazione nel libero arbitrio, ancorandoci a leggi non scritte.
Sembra uno scenario senza speranza, in cui tutti, angeli e divinità comprese, siamo destinati prima o poi a cadere, come L’Angelo ribelle che, inscritto in un cerchio, è bloccato nel kairos dell’urlo strozzato, privo della capacità di volare perché le sue ali si sono spezzate. Alla sua destra un globo luminoso, forse il sole a cui ha deciso di avvicinarsi troppo in veste di Icaro, oppure la sua casa di origine che continua a vivere al confine tra umano e divino, a metà tra l’eternità priva di tempo e la morte terrena, mentre questo soggetto, emblema di ribellione e daimon messaggero tra cielo e terra, si allontana dalla luce e diviene sempre più simile a un’ombra. Lo dimostrano le sue ali: la terracotta lascia il posto al ferro in via di logoramento, quasi arrugginito, pesante nella sua inutilità, come i colibrì che si pensa muoia nel momento se ne blocca il volo. È la fiamma del desiderio di ciò che è proibito che ci spinge a scavalcare le regole e a porre in discussione l’ordine prestabilito.
Il fuoco, insieme agli elementi di acqua, aria e terra, rappresenta una delle tante sfaccettature dell’esistenza umana e dell’eternità divina: è il tormento della passione amorosa. Conosco i segni dell’antica fiamma diceva Didone nel momento in cui si accorgeva di innamorarsi di Enea. La fiamma dell’amore porta ricchezza, ma anche morte e distruzione: Cartagine conosce una prima sconfitta protoromana sul piano delle passioni umane, quando la sua regina decide di gettarsi sulla propria spada dopo la partenza di Enea. Un’altra versione vuole invece che, dopo essersi trafitta, si getti nelle fiamme. Didone ha utilizzato il suo ultimo kairos per compiere un gesto estremo; non aveva scelta, doveva lasciar andare Enea affinché compisse il suo destino, che sia o meno azione precipitosa – non contemplata nel tempo dell’occasione propizia – la sua decisione che va al di là del bene e del male, oltre la volontà divina e la volontà dello stato. Kairos, infatti, per i greci è anche il tempo oltre l’umano e il divino, grazie a cui l’azione diventa pura autonomia e si può decidere come agire rispetto a se stessi e per se stessi.
Com’è possibile conciliare questa presa di posizione con l’eterno ritorno dell’uguale e l’ineluttabilità del destino? In che modo l’uomo può decidere per se stesso, sfruttare il kairos arginando il suo potenziale “essere aspettante”, se il demone che ci appare dalla finestra ci svela che tutto si ripeterà all’infinito, scandito dalla prevedibilità, che tutta la nostra vita non è altro che un eterno ritornare laddove siamo già stati? Una consapevolezza che coglierebbe nel tormento qualsiasi essere vivente. Zoli rappresenta questa sensazione con l’oro che percorre le sue sculture: il teschio, il cerchio, lo scorpione. Quest’ultimo, animale portatore di morte e rinascita, di un destino eccezionale legato al coraggio di chi si avvicina alle fiamme per toccarlo, è simbolo del tormento interiore dell’uomo così come lo è del potere. Non a caso, la costellazione astrologica dello Scorpione è collegata al dio Plutone, divinità della morte, ma anche della ricchezza materiale. Nel cielo la troviamo opposta alla costellazione di Orione che venne punto da uno scorpione dopo che, avendo rifiutato Diana in nome della fedeltà alla moglie, era stato da lei sorpreso a molestare le Pleiadi.
Nel passaggio vita-morte-rinascita lo scorpione è pura trasformazione e del modellatore di una nuova esistenza, come lo scultore che trasforma la terra o la pietra e la rende tramite per il soggetto rappresentato. In questo processo trasformativo l’eroe deve scegliere come continuare il suo viaggio a fronte di un bagaglio di ricordi non sempre facile da gestire, dotato di ali per volare che sono tenute a riposo perché sanno che, volando troppo in alto, rischia di schiantarsi a terra. È l’altra metà dell’artista questo eroe che “è volato via troppo presto”, incarnato e accettato per quello che è e che ha deciso di lasciare a Zoli.
La forza dell’eroe si riflette nel mondo animale attraverso il cavallo, dotato in queste sculture di attributi mistici: alato a simboleggiare il Pegaso, oppure, quando privo di ali, rappresentato con uno o più corni sul muso, Pegaso si disincarna e diventa puro simbolo a contatto con il ciclico tempo dell’esistenza. La natura astratta e imprecisabile dell’aria si manifesta in questo animale che raramente è rappresentato in posizione statica, ma solleva le zampe verso l’alto, oppure galoppa nelle nuvole, si impenna nell’atto di iniziare un viaggio con il suo compagno, sia esso Perseo, Porsenna o Bellerofonte. Quando l’uomo è accompagnato dal cavallo, non deve temere le sorti di un’esistenza sbagliata: la rappresentazione di Zoli ci fornisce un appiglio alla sensibilità, alla libertà e al coraggio. Non siamo più in bilico, aspettando la battaglia, non cadiamo, né siamo condannati a mutare il nostro aspetto sotto gli occhi degli dèi invidiosi (come per Medusa o Aracne). La morte sembra essere lontana e trionfa la vita. L’essenza e l’armonia condensa la riflessione dell’artista sulla figura del cavallo: rappresentato in equilibrio sui posteriori, con gli anteriori rivolti in avanti, come a spiccare un balzo sull’acqua sottostante. Sopra di esso, senza nessuna pretesa di sottomissione sta un ragazzo che tenta di rimanere in equilibrio, in una coincidenza di essere e senso, in pace con se stessi, con la Natura e con l’Universo.
L’acqua, infine, è simbolo di leggerezza e libertà: da questa, rappresentata come un piedistallo azzurro di resina, nascono Urania e Afrodite, ci si interroga sull’Eterno Enigma dell’esistenza, cercando di capire se sia il cielo o il mare a dare all’uno il colore dell’altro. Dove risiede la verità? Nemmeno gli angeli lo sanno: questo sta seduto su una sfera retta da un piedistallo, ha le gambe cucite e la bocca imbavagliata. Tiene in mano quella sfera che l’angelo ribelle osservava mentre precipitava verso la Terra. Le sue ali sono in procinto di muoversi per liberarsi da questa costrizione, imposta forse dall’alto come punizione per aver svelato troppo. Tiene la sfera come un antico Amleto che si chiede “essere o non essere? Divino o umano? Kairos o Chronos?”. Non possiamo saperlo, ma possiamo provare a sporgerci verso l’alto o verso il basso. Comunque vada, se ci avviciniamo troppo all’abisso o al cosmo, la fine è segnata, il destino dell’uomo è ineluttabile e finiamo comunque per cadere.