L’ha fatto così, “de botto, senza senso”. Il neo presidente degli Stati Uniti Donald Trump, dopo aver annunciato un “takeover” della Striscia di Gaza in un già delirante discorso, ha pubblicato su Instagram un video che sembra muoversi tra la provocazione estrema e il trolling consapevole. Ma se davvero sta trollando, la domanda sorge spontanea: fino a che punto si può spingere la provocazione senza sconfinare nel cinismo più sfacciato? La rappresentazione di Gaza come un lussuoso resort appare come l’apice dell’estetica levigata di descritta da Byung-Chul Han, una superficie sia fisica che concettuale che ha lo scopo di rimuovere ogni traccia di attrito, di rugosità, di dolore. La Gaza immaginata da Trump è un non-luogo patinato, privo di storia e di memoria, dove il trauma viene cancellato sotto una colata di colori saturi e superfici riflettenti. Il risultato è un prodotto visivo che sovrascrive tutto con un immaginario consumistico e grottesco.
Se nel pensiero di Han, la società contemporanea tende a eliminare tutto ciò che resiste alla fluida scorrevolezza dell’immagine, il video di Trump incarna perfettamente questa tendenza. Non c’è spazio per la sofferenza, per la distruzione, per la testimonianza e Gaza viene ripulita non solo delle sue macerie ma della sua identità. La costruzione di questo immaginario di cartapesta raggiunge l’apice con la statua dorata di Trump che troneggia su una piazza immacolata: un simulacro della modernità che celebra l’ego e la potenza dell’immagine svuotata di senso. L’uso dell’intelligenza artificiale in questo contesto non fa che esacerbare l’effetto di sradicamento e di alienazione. L’AI, impiegata in modo superficiale, diventa strumento di rimozione più che di rappresentazione, cancellando le complessità per offrire un prodotto visivo facilmente digeribile e condivisibile sui social.
Le reazioni internazionali hanno messo in evidenza la portata offensiva di questa operazione. Definito “osceno” e “aberrante” da esponenti politici europei, il video non può essere ridotto a una semplice provocazione o a un esercizio di marketing personale. Eppure, considerando la lunga storia di esternazioni volutamente eccessive di Trump, si potrebbe sospettare che l’intento sia proprio quello di scioccare per catalizzare l’attenzione mediatica. Se davvero è tutto un trollaggio, allora la questione si sposta dal “cosa mostra” al “perché lo mostra”. Provocare indignazione è diventato parte di una strategia comunicativa in cui lo scandalo è moneta di scambio e la viralità l’obiettivo primario. Ciò che risulta insopportabile in questo frangente però, non è solo il contenuto, ma la modalità con cui la realtà viene estetizzata fino all’annullamento: si tratta di una cancellazione del dolore sotto il segno dell’efficienza comunicativa e della spettacolarizzazione. Gaza non è più Gaza: diventa uno sfondo esotico, una cartolina virtuale per la narrazione di potere di Trump e dei suoi amici di merende, come Musk e Netanyahu.
Han ci avverte che la nostra è l’epoca della positività: non ci sono più conflitti, solo opportunità; non ci sono più lutti, solo riqualificazioni (non a caso, un concetto usato anche da Trump per il takeover di Gaza). Il video incarna questa ideologia fino all’eccesso, mostrando come il marketing politico possa appropriarsi delle tecnologie più avanzate per produrre contenuti che negano la stessa umanità che pretendono di celebrare. Il ricorso all’AI, invece di aprire spazi per nuove narrazioni, si riduce a un uso cosmetico e rassicurante, dove persino la guerra viene trasformata in attrazione turistica. L’estetica levigata diventa così estetica del disprezzo: la rimozione della sofferenza non è neutrale, ma attivamente offensiva. Si tratta di un meccanismo di negazione che, nel tentativo di creare un’immagine positiva, finisce per produrre un cortocircuito grottesco e disturbante.
Dal punto di vista semantico, il video costruisce un linguaggio visivo che rifiuta la complessità e privilegia la velocità di fruizione. Le immagini scorrono senza soluzione di continuità, la musica è incalzante, i colori esasperati. Tutto è progettato per una visione rapida e senza attrito, conforme alle logiche dell’intrattenimento virale. Eppure, proprio questa fluidità esasperata produce un senso di inquietudine. L’effetto levigato, invece di rassicurare, risulta sinistro nella sua cancellazione di qualsiasi traccia di reale e la Gaza virtuale di Trump si configura come un prodotto post-verità per eccellenza: non importa cosa accada realmente, ciò che conta è l’efficacia dell’immagine, la sua capacità di circolare e di produrre reazioni immediate.

La presenza ossessiva dell’immagine di Trump nel video – con la statua dorata che domina l’orizzonte come un idolo pagano – è la rappresentazione plastica di un narcisismo fuori controllo. Non è solo autocelebrazione: è un tentativo di riscrivere la storia con sé stesso al centro, come se ogni tragedia potesse essere trasformata in un palco per la sua esibizione.
Questa centralità dell’ego ricorda certe derive dell’arte contemporanea, dove l’artista diventa l’opera stessa. Ma qui siamo oltre: Trump non si limita a essere il protagonista, pretende di essere il salvatore, il costruttore di un nuovo mondo (dorato e grottesco), cancellando le complessità e le sofferenze di quello esistente.
Il video è dunque la manifestazione di una deriva culturale più ampia, in cui le tecnologie vengono piegate a logiche di spettacolarizzazione che non tollerano la complessità e il dolore. L’effetto finale è quello di un sogno che diventa incubo patinato proprio per la sua impeccabile artificialità.
Donald Trump non ci ha mostrato la Gaza del futuro. Ci ha mostrato il presente malato di una cultura che non conosce più il limite tra intrattenimento e rispetto, tra fiction e realtà, tra cinismo e disumanità. E se questa è la nuova estetica della politica pop, allora siamo davvero entrati in un’era buia – nonostante tutto l’oro che ci viene gettato addosso.
Non guardo il video, mi basta come mi è stato descritto. Trump è la punta dell’iceberg del mondo politico che ci ritroviamo in questo momento e che è scaturito non dal nulla ma preparato, purtroppo. Qui viene descritto molto bene e non si può aggiungere altro. Viene citato Byung-Chul Han di cui sto leggendo -Del vuoto- ma non conoscendo altro del suo pensiero dovrò approfondire. Grazie