Il titolo Perdere la testa evoca molteplici significati che vanno oltre la semplice allusione alla decapitazione fisica. È una frase che richiama l’idea di perdere il controllo, di lasciarsi travolgere da passioni o istinti irrazionali, come spesso accade per i personaggi biblici e mitologici raffigurati nelle opere esposte. Questo tema della perdita di razionalità, o della resa alle emozioni forti, riflette la condizione umana in tutta la sua vulnerabilità: l’impulso, la colpa, il desiderio di vendetta o di sacrificio.
Perdere la testa esprime così una tensione tra impulso e razionalità, tra caos e ordine, tra sacro e profano, che attraversa secoli di storia dell’arte.
Questo ci ha suggerito la mostra “Perdere la testa” presso la Galleria BKV Fine Art di Milano, un’esposizione che è è un’esplorazione suggestiva e provocatoria dell’iconografia della testa mozzata, un tema che attraversa i secoli, oscillando tra fascino e orrore. Dal Rinascimento ai giorni nostri, l’esposizione presenta sessantaquattro opere di artisti che hanno reinterpretato questo soggetto intenso e simbolico. La selezione include maestri come Juan Bautista Maino, Giuseppe Vermiglio e Claude Vignon, fino ad artisti contemporanei quali Bertozzi & Casoni, Julian Schnabel e Vik Muniz, mostrando la persistenza e la versatilità di questo tema attraverso stili e tecniche diverse.
Questa raffigurazione, profondamente radicata nella storia dell’arte, si concentra su figure iconiche come San Giovanni Battista, Golia e Oloferne, insieme ai loro carnefici — Salomè, Davide e Giuditta — simboli universali di potere, vendetta, e giustizia divina. I capolavori provengono in parte dalla Collezione Koelliker e vantano opere originariamente appartenute a Giovanni Testori, noto storico dell’arte e collezionista.
All’ingresso della mostra, una straordinaria tela di Giovanni Battista Maino accoglie i visitatori, raffigurando Salomè con la testa di San Giovanni Battista. L’opera, attribuita al grande artista spagnolo dallo studioso Gianni Papi, incarna la potenza dell’iconografia barocca, in cui il sacro e il profano si intrecciano attraverso la rappresentazione della figura seducente e sinistra di Salomè, artefice dell’atroce decapitazione del Battista, eroe e santo cristiano.
Il percorso della mostra propone una vera e propria ossessione visiva per la testa mozzata, che appare lungo le pareti attraverso una serie di ripetizioni pittoriche. La rappresentazione della decapitazione del Battista è suddivisa in due aree cronologiche principali: la prima, con opere del XVI secolo e dell’area lombarda, fa riferimento alla fama del dipinto devozionale di Andrea Solario per Luigi XII, e riflette l’influenza delle nature morte, in cui oggetti come frutti e teste di animali evocano la vanitas e la caducità della vita.
Tra i pezzi di questa sezione vi è una testa, proveniente dalla collezione Borromeo, attribuita a Giovan Battista Figino e ispirata alla grande tavola di Cesare da Sesto conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Troviamo anche la testa del Battista di un seguace di Andrea Solario, il cui originale è oggi esposto al Louvre di Parigi. La mostra, così concepita, crea un itinerario visivo che non solo attraversa epoche e stili, ma che invita a riflettere sulla fugacità dell’esistenza e sul potere evocativo delle immagini simboliche.
Continuando la seconda parete ripercorre il tema della decapitazione in questo caso attraverso una selezione di opere barocche ispirate alla tradizione caravaggesca, con rappresentazioni tenebrose e macabre. Tra le opere barocche esposte vi sono tre dipinti che derivano dall’iconica Erodiade di Francesco Cairo, esemplare conservato ai Musei Civici di Vicenza, che accentuano la drammaticità del tema attraverso chiaroscuri potenti e composizioni che sfiorano il grottesco.
Nelle prime due sale si possono osservare anche sculture del Cinque e Seicento, in legno e marmo, che raffigurano teste mozzate, tra cui la “testa di giovane martire” attribuita a Domenico Poggini. Le reinterpretazioni moderne, come la rappresentazione del Battista sostituito da un gorilla di Bertozzi&Casoni, stabiliscono un dialogo tra passato e presente, dove la ripetizione ossessiva del soggetto diventa un motivo visivo predominante.
Il dialogo tra arte antica e contemporanea è evidenziato anche dalle opere dell’iraniano Arash Nazari, che crea figure decapitate su lastre di acciaio specchiante, e dalle incisioni di artisti italiani come Renato Guttuso e Andrea Salvatori. Dalla Collezione Koelliker provengono alcuni pezzi originariamente appartenuti a Giovanni Testori, autore profondamente ispirato da queste iconografie. In mostra sono presenti anche due suoi acquerelli del 1968, creati durante la stesura del suo monologo teatrale “Erodiade”, in cui Testori torna insistentemente sul motivo della testa mozzata di San Giovanni Battista.
La mostra guida il visitatore al primo piano, dove la narrativa biblica dei personaggi di Davide e Golia e Giuditta e Oloferne prende vita. Qui, il racconto visivo mette in risalto la determinazione e la forza di Giuditta e Davide, figure che, ciascuna a proprio modo, liberano il loro popolo da oppressori potenti. Giuditta, seducente, riesce a soggiogare e a decapitare il generale assiro Oloferne, proteggendo il proprio popolo. A fianco, Davide affronta e sconfigge il gigante filisteo Golia con una semplice fionda, in un atto che incarna il coraggio contro un avversario apparentemente invincibile.
Una terracotta di Arturo Martini risalente ai primi anni Trenta, si pone come preludio ai dipinti circostanti, raffiguranti una serie di Giuditte create da maestri del Seicento. Tra questi, una tela di Giuseppe Vermiglio, celebre per il suo contributo al caravaggismo lombardo.
La mostra traccia un percorso che riflette anche sulla mutazione del ruolo dell’eroe e della rappresentazione del carnefice, infatti, a partire da Caravaggio, il concetto di virtù associato al vincitore inizia a vacillare. Caravaggio, con il suo autoritratto nella testa di Golia, introduce un cambiamento radicale: identificarsi con il “cattivo sconfitto” porta con sé una riflessione profonda sul fallimento e sulla colpa. Questa innovazione ha ispirato intere generazioni, tra cui Julian Schnabel che nel suo Number 3 (Self-Portrait of Caravaggio as Goliath, Michelangelo Merisi) del 2020 riprende questa idea, dimostrando l’impatto duraturo della visione caravaggesca nel contesto moderno.
Tra i dipinti in mostra, il Davide con la testa di Golia attribuito a Domenico Cerrini e una versione di Giacomo Farelli esprimono anche la complessità e il turbamento interiore dei carnefici, tratti che ben si distaccano dall’eroismo idealizzato e riflettono un approccio sempre più umano e pensieroso.
Questo mutamento di significato diviene ancor più evidente con l’avvento della modernità e del postmoderno. Se le rappresentazioni antiche e barocche di vanitas e teste mozzate servivano a insegnare, trasmettendo un messaggio di dolore e redenzione radicato in un contesto religioso, la loro funzione si svuota progressivamente nei secoli. Nella società postmoderna, frammentata e discontinua, il motivo della testa mozzata si evolve in una celebrazione della materia stessa. Vik Muniz ne è un esempio con la sua Medusa, after Caravaggio (Picture of Junk) del 2009, in cui ricrea l’iconica testa di Medusa usando materiali di scarto raccolti in una discarica. Quest’opera trasforma la Medusa in un simbolo della modernità, circondata da lattine, metalli e pneumatici, offrendo una riflessione sull’impermanenza e sulla reinvenzione continua della nostra eredità culturale.
In un certo senso, l’esposizione invita a “perdere la testa” abbandonandosi completamente all’intensità delle opere, lasciando che queste sollevino domande, impressionino e stimolino riflessioni.
La mostra è accompagnata da un catalogo che riproduce le opere esposte e il loro allestimento negli spazi della galleria, con un testo di Leyre Bozal, storica dell’arte e curatrice spagnola, e un racconto di Gianni Biondillo.