In occasione della pubblicazione del catalogo Piero Fogliati. Luce e suono, l’utopia di Pietro Fogliati (con illustrazioni a colori, testi di Roberto Borghi e interventi di Paolo Fogliati, Giuliano Gori, Giuseppe Panza di Biumo, Volker Feirabend, Daniela Castellucci, Massimo Belli, Francesca Riccioni e Roberto Borghi, 2023, pagg. 158, Lorenzelli Arte), pubblichiamo la testimonianza di Alessandro Trabucco, critico e storico dell’arte, che ha conosciuto a fondo il lavoro dell’artista e frequentato a lungo il suo studio torinese. Come lo definisce l’autore, “non un testo critico analitico sull’opera di Piero Fogliati, ma un “racconto emotivo” che narra di un’esperienza di vita unica ed irripetibile, il ricordo di un evento fortunato in grado di cambiare definitivamente il mio percorso umano e professionale negli anni seguenti e fino ad ora”.
di Alessandro Trabucco
Chi è stato Piero Fogliati? Per me sicuramente una delle persone più importanti della mia esistenza, oltre che uno dei più grandi artisti del Novecento.
Siamo nel lontano maggio del 1996, studiavo all’Accademia di Brera e per tre giorni, dal 26 al 28, le lezioni erano sospese per un convegno intitolato “Arte e Scienza”. Noi studenti potevamo approfittare della pausa e stare a casa, anzi, i professori stessi non nutrivano molte speranze su una nostra significativa partecipazione, era nota la loro scarsa considerazione nei nostri confronti. Invece pochi, ma buoni, parteciparono, tra i quali anche io. Alcune aule erano occupate da installazioni artistiche sul tema del convegno e in una di queste vi era allestita l’opera Edicola delle Apparizioni di Piero Fogliati, realizzata nel 1986 e presentata alla Biennale Di Venezia di quello stesso anno.
In quel periodo stavo elaborando una mia personale ricerca artistica sulla luce e l’immateriale, senza avere mezzi e competenze necessarie per realizzare qualcosa di interessante. Mi limitavo a fotografare i raggi del sole che filtravano dalle finestre della mia casa e che andavano a colpire, con forme geometriche, delle tele bianche che posizionavo in base al risultato che volevo ottenere. Ma in fin dei conti erano solo delle immagini fotografiche, delle stampe che documentavano un evento passeggero ed effimero. Il “dipingere con la luce del sole” non era altro che un espediente grossolano ed inefficace.
Un incontro folgorante
Quando, il primo giorno dell’evento, entrai in quella piccola aula dell’Accademia resa totalmente buia, il mio sguardo non percepì nulla in quanto doveva adattarsi al passaggio repentino da un ambiente luminoso (era una bellissima giornata di sole di primavera inoltrata) ad uno immerso nell’oscurità. Riuscii a sentire un suono meccanico, associato a dei lampi di luce proiettata su delle bacchette bianche sospese nel vuoto. Quando la vista si adattò alla situazione riuscii anche a scorgere un signore che mi osservava con curiosità interrogativa, con occhi sporgenti e un sorriso appena accennato ma autentico, quasi a volermi domandare qualcosa inerente a quei lampi luminosi intermittenti.
Ovviamente non avevo capito che quel signore era l’autore ma pensavo fosse uno spettatore come me. Invece, con grande gentilezza e modi d’altri tempi, si presentò come Piero Fogliati, ideatore dell’opera che stavo osservando. Un nome che non avevo mai sentito prima e che faticavo anche a collocare temporalmente nella cronologia artistica degli ultimi 50 anni, magari associandolo all’arte cinetica e optical. Niente di più sbagliato.
Per il cosiddetto “sistema dell’arte” Piero Fogliati è stato un enigma, un mistero, termine assai caro all’artista e che utilizzava spesso per definire cosa fosse per lui l’Arte.
Indagare il mistero
Piemontese, classe 1930, originario di Canelli in provincia di Asti, con studio ed abitazione a Torino in zona Piazza Rivoli, è stato attivo proprio negli stessi anni dell’affermazione dell’Arte Povera torinese senza però entrare a far parte di quella élite di artisti. Eh no… perché la sua ricerca si discostava nettamente dalla loro, per l’utilizzo della tecnologia meccanica e ottica, e che faceva di lui un artista ideologicamente opposto alle declinazioni del gruppo di Germano Celant. Questa cosa ha un po’ segnato il destino di Piero Fogliati, isolandolo, tagliandolo fuori dal consesso di quel “sistema” e facendo in modo che la sua opera risultasse, paradossalmente, addirittura reazionaria, non conforme alle istanze “progressiste” dell’epoca.
L’ideologia… già. Siamo negli anni a cavallo tra i Sessanta e Settanta e ogni cosa è condizionata dal pensiero politico, nessuno che voglia impegnarsi socialmente e culturalmente può discostarsene, pena: l’ostracismo. Mentre a Piero Fogliati non interessava quell’argomento, interessava solo cercare di indagare il mistero, di svelarne i segreti o per lo meno di avvicinarcisi con la realizzazione di qualcosa di significativo, autonomo (altra parola chiave nel vocabolario dell’artista) immateriale e dal procedimento mai ripetitivo.
Una ricerca non inquinata da tematiche esterne all’idea stessa di Arte.
L’Edicola delle Apparizioni e l’Aura Cromatica
Ma tornando per un attimo a quel giorno di maggio, che segnò per sempre il mio percorso artistico ed umano e che mi diede la consapevolezza che ormai quasi tutto era già stato fatto e che dovevo dedicarmi solo allo studio approfondito della sua opera, Fogliati mi spiegò brevemente il “meccanismo” dell’Edicola delle Apparizioni e anche il funzionamento dell’occhio umano. Mi parlò di quei movimenti rapidi ed autonomi (ancora questa parola) detti saccadici, che il nostro occhio compie per far sì che avvenga la percezione della realtà. E sono proprio questi veloci movimenti inconsci che permettono di vedere nel vuoto le immagini, le lettere e i numeri che l’opera proietta, dei flash bidimensionali che appaiono e scompaiono nell’arco di un millisecondo. Sta anche alla capacità visiva del singolo spettatore cogliere o meno le forme proiettate sulle bacchette unidimensionali, afferrandole, “tirandole fuori” nello spazio con la loro bidimensionalità.
Lo stesso principio ottico/visivo alla base dell’opera Aura Cromatica, del 1970 (anno che ha segnato una svolta nella ricerca di Fogliati) nella quale è un raggio luminoso, all’apparenza bianco ma in realtà tricromatico, a creare nel vuoto delle bande luminose di colori primari (la sua Luce Fantastica, invenzione di fine anni ’60 che caratterizza anche l’opera Prisma Meccanico, realizzata nello stesso periodo).
Nel laboratorio-officina dell’artista
Rimanemmo quindi d’accordo che avrei cercato il suo indirizzo su “Art Diary” (la guida con tutti i numeri di telefono e gli indirizzi di artisti, critici e gallerie che Giancarlo Politi, editore della rivista Flash Art, pubblicava prima della nascita di Internet, ndr) e che sarei andato a Torino a trovarlo per approfondire il suo lavoro. E così fu nell’ottobre dello stesso anno, il 1996.
Dapprima lo scopo era quello di andare ad imparare “a bottega” i segreti del mestiere, ma fu evidente da subito la mia incompetenza ed incapacità pratica nel concepire e mettere in atto idee innovative riguardo la luce e la sua applicazione nell’arte. Quindi decisi di intraprendere un percorso alternativo, quello di studioso della sua opera, tanto da portarmi alla decisione di farne la mia tesi di laurea a Brera. Seguirono due anni di intensa frequentazione dello studio e dell’abitazione dell’artista, praticamente tutti i sabati, esclusi quelli del periodo estivo in cui entrambi ci prendevamo una pausa.
Piero Fogliati è stato un artista autentico, la sua dedizione all’arte è stata totale, una questione vitale, necessaria e irrinunciabile. Ma non ha fatto l’artista per “mestiere”, e come amava affermare lui stesso, ha svolto “mille mestieri” pur di rimanere autonomo e svincolato dagli ingranaggi arrugginiti di un ambiente poco accogliente. Ha fatto il tramviere, il benzinaio, il docente di tecnologia, il carrozziere, l’orologiaio, imparando da tutti questi lavori le tecniche che potevano servirgli allo scopo della sua ricerca: la meccanica di precisione, la lavorazione delle lamiere, lo studio dell’ottica e altro ancora.
Entrare nel suo laboratorio (non lo chiamava studio) era come entrare in una piccola officina meccanica, con il tornio, il trapano verticale, la fresa, utensili vari e barattoli di vernice. Non appariva nelle vesti stereotipate dell’artista bohémien pseudo anticonformista e disordinato. Piuttosto era un profondo conoscitore di tutto ciò che gli occorreva per mettere in pratica le sue idee, anche le più ardite ed apparentemente irrealizzabili, come per esempio colorare la pioggia, sonorizzare i venti, scolpire l’acqua, modulare i rumori della città, lanciare un suono che, attraversando la città stessa, tornasse indietro come un Boomerang Acustico. Un utopista razionalista, uno scienziato, un inventore, che non viveva con la testa fra le nuvole ma che sapeva benissimo dove sarebbe potuto arrivare.
Utopia di un’arte immaginifica
Cosa è mancato perché i suoi progetti prendessero la forma reale che la sua mente prodigiosa aveva ideato? È mancata la consapevolezza del suddetto “sistema dell’arte” (quindi anche di finanziatori in grado di supportare economicamente questi progetti) di avere a che fare con un gigante dell’arte contemporanea della sua epoca, e quindi di aver fallito la possibilità di ottenere delle opere monumentali di livelli eccelsi. Fogliati si è dovuto, per così dire, accontentare di realizzare le sue visionarie creazioni in “dimensioni espositive” (termine dell’artista), dimostrando che se gli fosse stata data la possibilità, veramente avrebbe potuto edificare un Auditorium a rumori, o sonorizzare i fiumi e costruire un enorme Campo Autonomo come una sorta di Torre di controllo per la messa in funzione di tutte le sue invenzioni.
E ricordo benissimo il senso di frustrazione con cui mi raccontava la delusione provata negli anni, l’isolamento, quasi autoimpostosi, nei confronti di un ambiente che ha sempre percepito come ostile oltre che molto distante dal suo concetto di creatività e Arte.
Un Leonardo dei nostri tempi, al quale sono mancati un de’ Medici, uno Sforza o un Francesco I di Francia che credessero nel suo genio.
Fogliati è scomparso nel 2016, vent’anni dopo il nostro primo incontro, un periodo durante il quale l’amicizia, la stima e l’affetto sono rimasti intatti, ostacolati solo nell’ultimo periodo da una salute precaria che gli impediva di uscire di casa e di ricevere ospiti.
Resta la sua opera, che fortunatamente sta vivendo una riscoperta significativa grazie ad artisti, critici, galleristi e collezionisti illuminati che ne hanno compreso appieno il valore e l’importanza nel panorama artistico di tutti i tempi.
Meglio tardi che mai caro Piero, ormai non sono più una voce nel deserto.
Riposa in pace.