Play Dead: la fine come occasione per sperimentare nelle opere di quattro grandi artisti

A Castrignano de Greci, tra le mura del Palazzo Baronale De Gualtieriis, visitatori e visitatrici hanno la possibilità di entrare in Kora, centro d’arte contemporanea e luogo di produzione e ricerca multidisciplinare sul contemporaneo, tra i più importanti del sud d’Italia.

Il centro, guidato da Paolo Mele con la direzione artistica di Claudio Zecchi, ospita tre mostre: al piano terra, un’esposizione del festival “YEAST” su cibo e nutrizione, inaugurato a fine settembre nella provincia di Lecce; al primo piano, il risultato del progetto di ricerca di Lucia Veronesi, “La desinenza estinta” su natura, linguaggio e scomparsa e, nella sala più ampia, “Play Dead!”

Quest’ultima mostra, a cura di Like a Little disaster, collettivo nomade nato nel 2014 con sede a Polignano a Mare, in provincia di Bari, comprende le opere di quattro artisti: Jenny Holzer, David Horvitz, Martine Syms e Lu Yang. A partire dall’espressione inglese “Play dead!”, traducibile in italiano come “Fingiti morto!”, si è cercato di indagare il concetto di fine, non intesa come termine o conclusione drammatica e inevitabile di qualcosa – una fase, un tempo, una vita – ma come possibilità di affacciarsi a una situazione o condizione nuova, in cui la fine diventa l’occasione per sperimentare una sensazione mai provata e un diverso modo di interpretare sé stessi e i propri “limiti”.

L’espressione «fa riferimento alla morte apparente; un comportamento attraverso il quale gli animali così come alcuni funghi o le piante “fingono” di essere morti. Si tratta di uno stato di immobilità innescato da un atto traumatico, predatorio, difensivo o riproduttivo e può essere osservato in una vasta gamma di animali, dagli insetti e crostacei ai mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci e, naturalmente, negli esseri umani». In “Play Dead!”, alfa e omega coesistono. Non c’è interruzione, né silenzio o pausa. Tutto riprende lì dove si è fermato, tanto che distinguere tra il punto conclusivo e il momento dell’inizio appare quasi impossibile.

«La fine del mondo è già avvenuta, sta avvenendo o avverrà? Se, come sostiene Heidegger, per mondo intendiamo “una totalità di senso”, esso non è mai realmente esistito. Esistono solo porzioni di mondo, quelle con cui entriamo in relazione di volta in volta. Si tratta quindi di fare i conti con questa fine – che però è sempre allo stesso tempo (un altro/primo) inizio?» ci si chiede. E a rispondere sono le opere in mostra.

Senza fine non c’è possibilità che esista un nuovo inizio, sembra essere ciò che comunicano al pubblico i quattro artisti, attraverso videogiochi, realtà virtuali, scritte psichedeliche e suoni acuti. «La morte rappresenta necessariamente la fine, possiamo prendere in considerazione la possibilità di essere contemporaneamente vivi e morti o né vivi né morti, al di fuori dello sguardo dell’altro?» è una delle domande che muove le quattro rappresentazioni, punti di vista diversi posti insieme per indagare il concetto di tempo, indissolubile dall’esistenza stessa dell’essere umano e dal suo rapporto con lo spazio che lo circonda.

La statunitense Jenny Holzer che, nel 1990, con “The Venice Installation” – opera allestita per la Biennale di Venezia – ha portato in scena insegne LED lampeggianti su cui si intervallavano frasi di protesta, per sensibilizzare su cambiamento climatico e diritti e scuotere le coscienze su corruzione e guerra, torna a riempire un corridoio di schermi di vari modelli e dimensioni per riproporre gli stessi argomenti, con la medesima forza espressiva. Trascorsi oltre trent’anni, molte cose sono cambiate, persino migliorate. Eppure, è sufficiente?

Anche David Horvitz gioca con le luci nel buio, proponendo un’installazione a neon, con una scritta che, sullo sfondo del lungo corridoio di schermi, pone il pubblico davanti a un muro, e a un dubbio, interrogandolo. Martine Syms e Lu Yang portano in mostra due realtà virtuali, realizzando video in cui gli avatar degli artisti diventano metafora per l’esperienza umana e in cui chiunque può rivedersi nelle immagini e interrogarsi sul concetto di indefinito. Martine Syms fa muovere il suo personaggio all’interno di un momento nullo, in cui spazio e tempo non esistono, ma si percepiscono solo le ripercussioni dello scontro con la realtà sul corpo rappresentato: l’avatar cade, si rialza, cammina, comunque va avanti. Lu Yang, proiettando sé stesso in un videogioco, si circonda di elementi innaturali e variopinti, combatte contro gli stereotipi e i limiti e rinasce ogni volta in una forma differente rispetto alla precedente, fondendo umano e mitologico.

Le opere esposte hanno in comune il fattore “luce”, tanto che dall’orario di apertura a quello di chiusura della sala, le istallazioni vanno necessariamente accese per essere viste. È la luce, quindi a dare vita all’arte? E cosa succede, invece, quando la luce si spegne e la sala viene chiusa? L’opera esposta smette di esistere? O “si finge morta” in attesa del prossimo mutamento – di stato, di luogo, di tempo – che la porterà in vita? E noi, che ruolo abbiamo in tutto questo?

«La mostra durerà un anno e – se saremo ancora vivi – nel corso dei mesi potremo assistere ad un processo randomico di evaporazione delle opere, scompariranno per lasciare spazio a reincarnazioni virulente e espansive da parte di altri artisti» hanno spiegato i curatori, aggiungendo che l’esposizione, così come appare oggi, potrebbe trovarsi totalmente stravolta tra qualche tempo. «Le opere iniziali, scompariranno nel corso del tempo per lasciare spazio a reincarnazioni virulente e espansive da parte di altri artisti». Il futuro? Per adesso, non c’è nessun indizio. 

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