Gaetano e Chiara Castelli gestiscono da molti anni la scenografia del palcoscenico di Sanremo – 22 volte lui e 10 volte lei – e anche quest’anno ci propongono la loro idea di isola sospesa, limbo giostrabile di una settimana festiva seppur feriale, una macchina (semi)celibe che si trasforma in piazza celebre per il tempo serale degli Aristonatti.
Un impegno installativo di notevole portata e impressionante visibilità, vero e proprio antro canoro che irradia l’inquadratura coi suoi azzurri principeschi e le sue morfologie tra biologie marine e micromondi cellulari. Diciamo che la coerenza dei Castelli si sente tutta, anche perché oltre il fattore estetico – discutibile ma mai banale – esiste un linguaggio scenico che gestisce la moltitudine di maestranze in cui tutto ha un preciso valore, a partire dal risultato ottico del fondale rispetto alle performance.
Di primo acchito la mia reazione è sempre la stessa: un moloch anabolizzato che atomizza i gusti del modello televisivo generalista, esaltando un’armocromia che la RAI ha reso codice figurativo di un live show dal professionismo eccellente. Al secondo sguardo confermo la deriva neobarocca che investe un intero sistema di perimetri e superfici visive, oggi dilagante nella cultura memestetica, nel retrofuturo che attualizza le anime vintage, nel postmodernismo digitale in cui i ventenni sembrano sommozzatori sociali tra barlumi anni Ottanta. Ecco, quella specie di grande vulva blu – o polmoni o reni o anche testicoli – mi riporta al decennio di spalline larghe e tagli cotonati, agli spettacoli faraonici in quel di Las Vegas, alle storie sporche di “Miami Vice”, ai fondali casalinghi da malavita, agli acquari nei centri massaggi sudamericani, ai solarium di periferia, ai luna park e ai circhi estivi, alle stanzette di alcune influencer che praticano ASMR…
Il problema degno d’analisi riguarda la permeabilità della società odierna, come se quei modelli di antimateria stilistica fossero nuovi archetipi ormai sedimentati nel gusto medio, da integrare però agli sconfinamenti delle Intelligenze Artificiali.
Fateci caso quando guardate artisti digitali alla Refik Anadol: il nuovo immaginario AI è un interminabile flusso di paesaggi edenici ma ipetrofici, di unicorni, dragoni e altri animali fantastici, di tramonti lisergici dal cielo infuocato, di architetture folli che sfidano decoro e fiaba, fantasy e surrealismi.
I modelli dilaganti ampliano il pathos emotivo e il piano sensoriale, ricreando un parossismo del gusto che rifugge i silenzi eleganti del minimale, le geometrie poco articolate, l’essenza senziente. Nel prossimo futuro cresceranno ambienti e ambiti che rilanceranno l’ornamento parossistico, un Barock & Roll (titolo di un mio progetto espositivo ed editoriale) modulato su istanze digitali e valenze iperreali, come se proteggersi dalle crisi planetarie richiedesse uteri frastornanti in cui abbandonarsi, tra colori collosi e rumori rutilanti, suoni gonfi e tecnologie ultime, per non captare mai il silenzio di una vita essenziale, quel fatidico “Perfect Days” wendersiano che oggi, davanti alla vulva aliena di Sanremo, sembra la più radicale delle sfide in una società che sguazza beata nel capitalismo decorativo.