Solomostry: dall’underground alla materia, il percorso di un’identità artistica in continua evoluzione

Nel contesto di un tranquillo quartiere residenziale nei pressi di piazzale Udine a Milano, incastonato nel labirinto di vie interne tra maxi condomini e palazzine anni Sessanta, si trova lo studio di un artista milanese dall’identità poliedrica ma ben definita che, traendo spunto dalle influenze metropolitane del muralismo e dei graffitismi anni Novanta, ha saputo muoversi con disinvoltura tra grafica, pittura, scultura e design, rimanendo sempre fedele al proprio stile e alla propria ricerca. Dai tratti decisi e sintetici, che delineano fisionomie ipnotiche divenute ormai una sorta di riconoscibile marchio distintivo, le sue opere sono caratterizzate dalla presenza di linee marcate e totale assenza di sfumature. Colori accesi e gestualità spontanea hanno reso Solomostry, al secolo Edoardo Maestrelli, classe 1988, un artista richiesto e attenzionato nel panorama contemporaneo milanese e non solo. 

L’ho incontrato nel suo studio, negli spazi di una vecchia palestra ora laboratorio polifunzionale dove l’artista sviluppa i suoi progetti e fucina di collaborazioni ed eventi.

Cominciamo con la domanda di rito, chi è Solomostry? Come ti definisci e che rapporto hai con le definizioni? 

Solomostry è un mio progetto del 2007. Nasce tutto da alcuni allestimenti che creavo per una serata techno in un locale milanese dove, ispirato dalla notte, realizzavo degli stendardi di grande formato che venivano appesi all’interno del club. Raffiguravano volti dai colori vivi e fluo. Dai Club ho poi deciso di trasferire il progetto in strada, dipingendo questi grandi volti (che io chiamavo mostri) con gli spray sulle pareti in giro per la città e trasformandoli man mano in “Solomostry”, quella che poi è di la mia identità.

Erano figure il più delle volte grottesche e stilizzate, dei “mostri” composti di linee grezze con uno sguardo penetrante sempre rivolto verso il pubblico. Per dimensioni e stile attiravano molto l’attenzione dei passanti. Dal 2014, poi, c’è un punto di svolta: realizzo la mia prima personale in galleria e, quasi senza accorgermene, inizia un nuovo percorso fatto di mostre, fiere d’arte e collaborazioni con i brand. Dalla strada, con il tempo, la produzione comincia a trasferirsi su altri supporti come la tela e arriva l’esigenza di iniziare una ricerca personale sui materiali e la produzione in studio. Così, abbandono progressivamente le produzioni sui muri e introduco nuove creazioni utilizzando la ceramica, il metallo e diversi materiali. Non ho mai amato le definizioni e le etichette dato che si corre spesso il rischio che poi se ne faccia un uso improprio, finendo con l’essere categorizzato tuo malgrado in qualcosa in cui non ti rivedi. Per esempio, sono stato spesso definito uno street artist, definizione che credo non mi appartenga del tutto.

Come nasce la tua vocazione per l’arte e chi sono i tuoi punti di riferimento?

Io credo che la vocazione per l’arte sia più che altro un’esigenza. Mi ha sicuramente influenzato molto il contesto abitativo in cui sono cresciuto, ho iniziato a provare un senso di curiosità e fascino nel vedere i muri dipinti e i graffiti che ricoprivano le pareti degli edifici per le strade di Milano negli anni ‘90.

Mi affascinava vedere quei segni “illegali” lasciati da persone di cui non conoscevo l’identità. Oltre a quello, tutto l’ambiente techno con i suoi suoni, le sue luci e i suoi frequentatori mi ha influenzato molto. I primissimi artisti che mi hanno influenzato sono stati Keith Haring, Basquiat, Andy Warhol, Rammellzee, Barry McGee …, loro sono quelli che mi han fatto capire che da un semplice graffito su di un muro ci si poteva evolvere dando vita a qualcosa di molto più potente e comunicativo. Crescendo ho avuto molti punti di riferimento e spesso molto diversi tra loro, anche esterni al mondo dell’arte, maestri che mi hanno introdotto alle tecniche e ai materiali, e soprattutto allo studio. Ora che son passati molti anni i miei interessi sono completamente cambiati, osservo e studio molto l’arte italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, rivolgendomi non più solo alla pittura ma anche, e soprattutto, alla ricerca sulla materia. 

Inizialmente sei partito mantenendo l’anonimato, cosa ti ha fatto decidere di esporti e “metterci la faccia”?

Ho deciso di metterci la faccia da quando la mia produzione ha iniziato a cambiare e si è spostata dai muri all’ interno del mio studio, sostanzialmente da quando ho cambiato interessi e, di conseguenza, il tipo di ricerca.

Pur essendo giovane hai già conquistato una posizione nel mercato dell’arte, hai un pubblico che ti segue e un buon numero di collezionisti che ti consente di vivere della tua arte ormai da qualche anno. Sei più tu a seguire il mercato o fai in modo che il mercato segua te?

In realtà ho sempre cercato di fare quello che mi sentivo di fare; poi, alcune idee hanno funzionato per il mercato e son state meglio recepite rispetto ad altre. Credo che ci sia bisogno di andare sempre dritti per la propria strada senza farsi influenzare da social, pubblico o mercato.

Come funzionano le tue produzioni? 

La mia produzione è sempre stata varia, dai pezzi unici ai pezzi in serie.

Ho sempre lavorato molto perché sento l’esigenza di produrre, la mia curiosità mi ha portato a sperimentare tanto: dipinti e sculture nei materiali più diversi, ma anche oggetti, abbigliamento, gioielli fino al design. Mi piace molto sperimentare e disegnare oggetti di uso comune. Fino ad ora ho sempre mischiato un po’ tutti gli aspetti della mia creatività in un unico calderone, ora sto provando a mettere ordine dividendo la mia produzione tra pezzi unici e in serie, separando le due cose per dare ad ognuna il giusto valore.

Dal muralismo alla pittura, dalla scultura alle collaborazioni con moda e design; ti muovi in diverse direzioni mantenendo sempre uno stile ben chiaro e riconoscibile. C’è una tecnica che ti fa sentire più a tuo agio?

Tutto arriva dalla pittura, che posso definire sicuramente il mio filone principale; poi ci sono le tecniche calcografiche e, in particolare, la serigrafia che mi accompagna da tanto tempo. Sto prendendo sempre più confidenza con la ceramica, mi interessa molto e i risultati mi soddisfano…

All’ADI Design Museum è in corso #Extreme Present, una mostra collettiva che riflette su nuove forme di progettazione e di relazione con l’ambiente. Lì esponi una tua opera scultorea… ti stai avvicinando alla scultura come nuova forma espressiva? 

Si all’ ADI ho esposto “la cupola”, una delle mie prime sculture in terra cotta. È la raffigurazione metaforica di un elemento di protezione sotto al quale ripararsi e riflettere, la cupola appunto. È nata in un momento in cui mi sentivo in un certo senso “schiacciato” dal mondo esterno, dalla città e dalla mia stessa produzione pittorica, nella quale sentivo di essermi intrappolato con movimenti e una procedura sempre simile a se stessa.

In quel momento ho deciso di fermarmi e provaSolomostry: dall’underground alla materia, il percorso di un’identità artistica in continua evoluzionere qualcosa di diverso, qualcosa in cui rintanarmi e pensare movimenti nuovi, e da questa nuova esigenza che sono nate nuove sculture, grazie alla quale ho ripreso la pittura con approccio diverso e con nuovi obbiettivi, pensieri e movimenti, scaturiti dal plasmare la materia a mani nude. Credo che sulla scultura mi concentrerò molto d’ora in poi…

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