The Electric State, il road movie cyberpunk con Millie Bobby Brown convince a metà

Dopo aver dato nuova linfa all’immaginario degli anni’80 con Stranger Things, Netflix e la sua giovane icona, Millie Bobby Brown, tentano ora di riscrivere il decennio successivo con The Electric State, adattamento dell’omonimo romanzo illustrato di Simon Stålenhag. Diretto dai fratelli Russo, architetti dei colossali Avengers: Infinity War e Endgame, il film si propone come un’epopea distopica che mescola suggestioni rétro, road movie e malinconia tecnologica. Ma al di là dell’imponenza produttiva (con un budget vertiginoso di 320 milioni di dollari), ci troviamo di fronte a un’opera capace di trasmettere autentico sense of wonder o siamo solo davanti all’ennesima macchina lucente della nostalgia?

L’universo di The Electric State si articola in un passato alternativo degli anni ’90, un’epoca che nella memoria collettiva rappresenta forse l’ultimo decennio di spensieratezza prima dell’avvento della perenne iperconnessione. In questo mondo parallelo, l’innovazione ha già accolto robot dalle forme cartoonesche nel quotidiano, fino a quando questi ultimi, con una presa di coscienza degna della migliore fantascienza, non hanno reclamato diritti propri. La conseguente guerra tra umani e macchine non ha portato alla classica apocalisse di metallo e fiamme, ma a un esilio forzato per le intelligenze artificiali, relegandole ai margini della civiltà.

Dentro questa cornice si muove Michelle (Millie Bobby Brown), un’orfana dal passato tormentato che si imbatte nel robot cosmo, guidato, forse, dall’anima dell’amato fratello Christopher. Decisa a scoprire la verità, intraprende un viaggio iniziatico attraverso paesaggi retro-futuristici in compagnia di Keats (Chris Pratt), un contrabbandiere dal cuore tenero. 

Sin dalle prime sequenze, il film si configura come una grande opera pop, pensata per un pubblico in cerca di emozioni semplici, affamati di un’estetica che riecheggia l’avventura classica alla Spielberg e i Goonies. Le citazioni sono molteplici e onnipresenti: il desolato scenario trae linfa dai moniti di Terminator, mentre il suo impianto narrativo strizza l’occhio all’immaginario di Ready Player One. Ma se la narrazione accumula frammenti di grande cinema, fatica a trovare una voce propria. La riflessione sul rapporto tra uomo e tecnologia è intuibile ma mai realmente approfondita: le macchine, consapevoli della propria subalternità, insorgono non per distruggere, ma per reclamare diritti, innescando un conflitto che si conclude con il loro esilio. Si chiede compassione per le macchine senza mai scavare a fondo nelle implicazioni etiche e filosofiche del loro allontanamento. 

Sul piano tecnico, The Electric State è una sinfonia visiva impeccabile: gli effetti speciali costruiscono un universo dettagliato e vibrante, e il design dei robot mescola fanciullezza e decadenza cyberpunk. Tuttavia, in mezzo a questo spettacolo estetico, la narrazione rimane incagliata in uno schema derivativo, incapace di restituire la stessa magia delle opere a cui si ispira. Il problema principale di The Electric State risiede nel suo eccessivo accumulo: troppa mitologia, troppi riferimenti, troppi volti noti. Il cast stellare, che annovera Giancarlo Esposito, Stanley Tucci, Woody Harrelson, Anthony Mackie, Brian Cox e Alan Tudyk, offre performance solide ma, alla fine, appare più come una parata di cameo che un ensemble coeso. 

Lo stesso Chris Pratt, pur tentando di infondere profondità al suo Keats, si ritrova intrappolato in una riproposizione stanca dei suoi ruoli precedenti. A soffrire maggiormente è la componente emotiva: se la costruzione del mondo è visivamente magnetica, manca quel battito sincero che ha reso grandi le opere a cui il film si ispira. Piccoli e fugaci lampi di genio non bastano a elevare un film che, pur offrendo un intrattenimento visivamente interessante, si dimostra incapace di generare quella scintilla di magia che distingue il grande cinema dal semplice spettacolo. The Electric State cerca la meraviglia, la sfiora, ma non la cattura mai del tutto.

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