Gian Maria Tosatti non vi “spiegherà” mai le sue installazioni ambientali, nemmeno a me, che gli sono amico stretto da anni. Del resto faccio anch’io così con la mia pittura. Ma cosa rappresenta? Mi chiedono anche quando a me sembra abbastanza ovvio. Pensa quello che voi, rispondo. Perché l’opera sta a metà tra l’artista e lo spettatore, almeno se si vuole conservare quell’aura poetica che per necessità rinuncia a dire tutto.
Tosatti. Forse per questo c’è chi non ha capito, e quindi non ha gradito, la sua opera alla Biennale, del resto osannata universalmente. Io ci sono stato dentro per ore. E sì, era molto pensata, c’era molto di razionale, anche di concettuale, ma per lasciare poi il visitatore a mani nude, sprovvisto di ogni strumento interpretativo. Non ti restava che guardare, girare, impregnarti di quegli oggetti – in quel caso un intero mondo – e lasciare che il tuo cuore provasse qualcosa. E così, in quella nudità vergine, il miracolo accadeva e vedevi il mondo in cui eri cresciuto ridotto a obsolescenza, un mondo da rottamare perché non va più. E ne uscivi trafitto, a vedere le barche sul Canal Grande e a dire: queste sono reali, ma quello è vero. Realtà e verità. Chi l’ha detto che la fantasia non sia vera?
Ora il Museo di Capodimonte dedica una sala a un’installazione permanente di Tosatti, intitolata Damasa, e che vuole fare esplicito riferimento ad Anna Maria Ortese, scrittrice amatissima dall’artista.
Damasa è il personaggio de La porta di Toledo. Una tredicenne che “non sa il nome delle cose e soprattutto non sa nulla del tempo”. Ed è qui che viene fuori la difficile grandezza dell’Ortese, nel costruire un universo in cui “tutto ciò che si vede o accade è incantato o spaventoso”. Scrive: “Comprendevo adesso – scrivendo Toledo – una cosa: che ogni cosa è intimamente inconoscibile. Non per tutti. Per alcuni – e dovevo vedermi tra questi – l’inconoscibile è il vero. Un tempo, un paese possono essere senza lapidi, come la luna. E uomini e donne possono non avere vero nome, essere unicamente forze ostinate, ignoti suoni. C’è la storia fuori, c’è la Tigre nel cielo; e qui, nulla. Come in una casa (città) dimenticata”.
Ortese è ritenuta una delle voci più alti del nostro Novecento ma contemporaneamente è tra le meno capite e citate. Per la nostra mania classificatoria viene inserita nel “Realismo magico”. Non credo che a lei importasse di questo. Si spinge al massimo nelle scene, nei personaggi, in un miscuglio di realtà e verità che non ha alcun bisogno di essere dipanato.
In questo le sono stati di aiuto i lunghi anni vissuti a Napoli, città amata. Ne L’infanta sepolta scrive: “Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui, […] tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, […] tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva […] una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione”.
Ma nel 1953 pubblicò con Einaudi la raccolta Il mare non bagna Napoli, che fu vista dagli intellettuali della rivista Sud (dove, tra l’altro, collaborava la stessa Ortese) come un libro contro Napoli. Fu la fine. Invisa, dovette lasciare per sempre la città. Ma leggendolo adesso, il libro non ha niente contro Napoli, è solo che ne racconta il lato in ombra. Una Napoli che ancora a quel tempo e pur devasta dalla guerra, era classista. E senza via di scampo. La povera gente era destinata a rimanere povera gente. La famosa A livella di Totò non è una pagliacciata: un signorotto titolato sepolto in una bella tomba è adirato perché giusto accanto gli è stato seppellito un poveraccio. Il libro, semplicemente, e tanto per non smentirsi, non fu capito.
Anni dopo rifletteva: “Pochi riescono a comprendere come nella scrittura si trovi la chiave di lettura di un testo e la traccia della sua eventuale verità. Ebbene, la scrittura del Mare ha un che di esaltato, di febbrile, tende ai toni alti, dà nell’allucinato: e quasi in ogni punto della pagina presenta, pur nel suo rigore, un che di “troppo”: sono palesi in essi tutti segni di un’autentica “nevrosi”.
Quella “nevrosi” era la mia”.
Certo aveva sofferto molto, giovanissima com’era, il costante terrore e il nomadismo famigliare durante la guerra. Forse ciò ha a che vedere con questa sua dichiarazione: “Da molto, moltissimo tempo io detestavo con tutte le mie forze senza quasi saperlo la cosiddetta realtà il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte. Questa realtà era per me incomprensibile e allucinante”.
Ora che abbiamo sentito Anna Maria Ortese, torniamo alla Damasa di Gian Maria. Una stanza con la finestra bassa, un letto di ferro che al posto del materasso e le lenzuola ha una candida piastra di onice. Una sedia sbilenca e riparata, un tavolo con un pezzo di pane che ha mollica di onice. La stanza è stata scopata ma contro le pareti si accumulano mucchi di cenere.
Non è più un rebus, ora che abbiamo sentito l’ispiratrice. Preziosità e cenere. Non spazzatura né rifiuti, si badi. La verità e la realtà ancora una volta amalgamate.