In un contesto artistico sempre più dominato dall’egemonia del mercato e dinamiche puramente istituzionali che talvolta sembrano soffocare il vero spirito critico, il ritorno di una giovane critica militante ed indipendente si dimostra una forte istanza della contemporaneità, connotata da un’attitudine, forse, utopica. “Tuttissanti” di Danilo Sciorilli (1992) si presenta come una riflessione pungente sulla sacralità dell’arte e sul ruolo dell’artista nel sistema contemporaneo. Un rituale “pagano” che muove da un’idea stratificata e complessa di cultura, caratterizzata da un approccio riflessivo ed etico all’arte ormai sempre più raro in un mondo che predilige tendenze momentanee ed esibizionismo.
La mostra, prodotta da Osservatorio Futura e curata da Francesca Disconzi e Federico Palumbo, non manca di provocare e interrogare, spingendo operatori e pubblico a compiere un ribaltamento dell’ordine gerarchico imposto dalle rotte commerciali per riflettere sulla relazione tra arte, potere e autenticità. Con fare sarcastico e irriverente, quest’esibizione ha inaugurato proprio in occasione di Artissima, una delle fiere più importanti nel panorama europeo, costituendo un intruso all’interno del ricco palinsesto artistico-culturale che coinvolge la città durante l’art week. Entrando nel piccolo spazio non assistiamo alla messa in vendita delle opere esposte, ma al contrario alla loro condivisione per innescare pensieri, emozioni e sorrisi sarcastici con la volontà di rivelare l’incredibile speculazione che è il mercato dell’arte oggi.
A partire dal titolo della mostra che richiama la festività di Ognissanti e intende essere sinistro e provocatorio, suggerendo che, purtroppo, l’arte non teme più l’autoreferenzialità e il culto di sé stessa. Quella messa in atto da Sciorilli è un’operazione audace che riflette sulla venerazione della figura dell’artista che appare intrepido, pronto a sfidare le leggi che determinano il sistema di cui egli stesso è parte. Eppure adottare una metafora potente quanto antica, come quella dell’artista “veggente” dotato di un’aura sacra, non è un gesto privo di rischi. La sacralizzazione dell’artista, infatti, potrebbe essere fraintesa, portando ad un’esaltazione pericolosa che, pur nella sua volontà ironica e critica, finisce per nutrire la stessa mitologia dell’artista-genio che l’autore vorrebbe smascherare.
Dal 2 novembre 2024 al 16 dicembre 2024, il pubblico è invitato ad entrare nel cuore della mostra composta da una serie di 12 santini, così come il numero dei Santi Apostoli, ciascuno raffigurante un artista storicizzato e corredato da una citazione che ne sintetizza la poetica e il pensiero sull’atto creativo e il sistema dell’arte in cui deve muoversi. Questi disegni a grafite, che richiamano la tradizione iconografica dei santini religiosi, sono presentati come vere e proprie icone contemporanee, dove l’artista diventa una figura quasi divina, un “santo” che, attraverso il suo pensiero e la sua arte, offre verità, a volte assurde, e risposte inedite al mondo che lo circonda.
Le dimensioni ridotte dei lavori non fanno altro che contribuire all’edificazione di una fruizione spirituale ed intima che coinvolge lo spettatore in un rapporto dualistico con l’opera. Questi Santi protettori dell’arte non sono altro che dei “furfanti”, ne è un esempio perfetto Gino De Dominicis che cercava di imparare a volare o di compiere azioni impossibili come formare dei quadrati nell’acqua, oppure Pino Pascali che creava armi giocattolo in una realtà dove l’arte è finanziata da Beretta o ancora Anselm Kiefer che si prende gioco dei suoi stessi collezionisti affermando che “comprare l’arte non è capire l’arte”.
La scelta di utilizzare il santino come medium è interessante e colma di significato. Il formato rievoca un immaginario popolare, seppur mai grottesco, e sacrale ma al contempo lo distorce, lo decontestualizza, portando la sacralità fuori dai tempi canonici dell’arte. Ciò nonostante, questa operazione potrebbe ridurre l’arte stessa ad un oggetto di culto, una religione laica ed intellettuale destinata a pochi, in cui il valore dell’opera è direttamente collegato solo al prestigio e alla venerazione ad essa conferiti. Sciorilli appare pericolosamente in bilico tra essere parte del sistema e rifiutarlo, imbattendosi in una critica che scaturisce dall’interno e potrebbe essere viziata per natura.
Porre l’artista su un piedistallo vuol dire dare forma ad una nuova autorità, per quanto questa sia messa in discussione. Nonostante questa sottile ambiguità, la serie di santini riesce a sollecitare le menti e a sollevare interrogativi validi riguardo alla posizione dell’artista sia all’interno della società che nel sistema arte, il quale spesso ne esalta il talento a scapito dei contenuti. Oggetto di mercato più che di riflessione, l’opera può scadere nel feticcio, passando da essere un elemento generatore di molteplici energie ad un arredo di cui vantarsi nella propria cerchia.
“Penso che l’intera tragedia del mondo dell’arte sia che non si occupa di arte. Non si occupa di cultura e non si occupa di umanità” (Anna Boghiguian).
Tutto si traduce in un delicato gioco di riflessi in cui Danilo Sciorilli riesce ad illustrare le contraddizioni incarnate dal sistema, senza mai cadere nella denuncia semplicistica e retorica. Il fulcro dell’esposizione è concentrato in un altare, che diventa luogo di una vera e propria liturgia contemporanea. Durante l’inaugurazione, diversi ospiti e curatori sono stati chiamati a leggere frasi critiche sul sistema dell’arte, componendo una performance evocativa, ritualistica, eppure sovvertiva. Così facendo hanno trasformato la critica da un mero atto di denuncia in un rito collettivo, un dialogo pubblico, che nasce da basi condivise, come a celebrare la crisi dell’arte, nella sua apparente decadenza.
Al centro dell’altare è collocata “A Cesare quel che è di Cesare”, un’opera che certifica ogni lavoro dell’artista, agisce come un sigillo di autenticità, un simbolo che, paradossalmente, legittima l’intero progetto. La moneta da un euro viene privata del suo valore nominale, per assumere quello di certificazione dell’opera, riprendendo il tema del sacro tramite l’iconografia della crocifissione che si sostituisce all’uomo vitruviano diventando un simbolo di verità e autenticità indissolubilmente legato a gran parte della storia dell’arte occidentale. Inoltre, allude alla rivoluzione “che passa tra il crocifisso ancora bizantino di Cimabue a quello realistico di Giotto” (I santini dell’arte, Giacinto Di Pietrantonio). Se da un lato questa opera sembra sfidare l’idea di un’autorità che certifica il valore dell’arte, dall’altro essa stessa finisce per rientrare nella logica di validazione del sistema che Sciorilli vuole mettere in discussione. La tensione tra ciò che viene criticato e ciò che viene affermato è una delle caratteristiche più interessanti della mostra, eppure anche una delle sue più grandi contraddizioni.
Questo duplice livello di significato, a metà tra critica e legittimazione, rappresenta forse la vera forza di “Tuttissanti”. Possiamo infatti notare come la maggior parte delle affermazioni collegate ai ritratti degli artisti insistono “sulla purezza dell’arte come qualcosa di avulso al sistema di cui tutti loro si sono serviti e si servono” (I santini dell’Arte, Giacinto di Pietrantonio). Allora com’è possibile scegliere tali dichiarazioni? In questo paradosso risiede una schiacciante verità: non è possibile sfuggire totalmente a un gioco di potere che è intrinseco a qualsiasi sistema, incluso quello dell’arte.
Il catalogo della mostra sposta la riflessione critica dall’ambito produttivo a quello curatoriale, raccogliendo ulteriori riflessioni e citazioni inerenti, non assume il ruolo di semplice veicolo di comunicazione o documentazione, ma anzi rappresenta un’estensione del progetto stesso. Scelta che riprende una tipologia di ricerca curatoriale sempre meno praticata, ma che riscopre la vera essenza della curatela, ossia prendersi “cura” di un progetto, di un artista o di un’opera ampliando le sue capacità espressive senza inscatolarla nei confini di un testo puramente descrittivo o in un trafiletto destinato a riempire il listino di una galleria. Come nella tradizione dei testi sacri, il catalogo diviene un mezzo per trasmettere idee dalla portata collettiva, nelle quali la critica non si limita al singolo destinatario, ma assume i connotati di un patrimonio comune, che ha senso oltre alla singola esposizione. Il testo rafforza il carattere performativo dell’evento e fornisce stimoli intellettualmente rilevanti al lettore.
L’artista idolatrato, icona, santo della modernità, la sacralizzazione del rito artistico e la critica come percorso di studio sono le tematiche di “Tuttissanti”. Sebbene il percorso visivo e testuale possa apparire ridondante, il lavoro congiunto di artista e curatori pone un interrogativo fondamentale: in un sistema che sembra aver perso ogni orizzonte morale, è ancora possibile per l’arte rivendicare una sua verità? La risposta ambivalente dona al pubblico una spinta vitale alla discussione, evidenziando l’importanza dell’arte come provocazione sacra nel panorama culturale odierno, che sembra sordo ai cambiamenti radicali del concetto di individuale e collettivo. In sintesi, l’esibizione vuole innescare la volontà critica nel pubblico, ormai abituato a subire passivamente le proposte culturali.