Piero Armenti, seguitissimo influencer, ha postato un video sulla sua pagina, dove ha buttato merda su una scultura dell’artista Nicholas Galanin posizionata di fronte al ponte di Brooklyn (una scritta “LAND” che ricorda la celebre scritta LOVE di Robert Indiana, realizzata utilizzando il materiale con cui è costruito il muro tra Stati Uniti e Messico, ndr). Una scultura “orrenda”, ha sentenziato l’influencer dal suo profilo Instagram, invitando addirittura l’artista (che non conosce) a “cambiare mestiere”. Il rapporto di causa-effetto vale in natura e vale anche quando ci si vuole far notare, e infatti i soloni dell’arte contemporanea (giornalisti e critici), dopo aver visto il video, non l’hanno presa bene, adoperandosi in un alzamiento indignato: “vergogna! non sei un critico! come osi?”. Anche da una parte dei suoi followers, va detto, in molti gli hanno risposto in malo modo: “Criticare senza sapere… che brutta cosa”, “Mi spiace ma siete caduti in basso! A quanto pare l’artista non è proprio l’ultimo arrivato… cmq poco elegante disprezzare un’opera… se non piace non la guardare!”, fino al caustico “Quindi qui siamo passati a giudicare da pizze a opere d’arte…”.
La mia domanda è: scusate, ma adesso non si può più neanche criticare un’opera d’arte pubblica? Bisogna avere per forza il patentino del critico per formulare un giudizio di gusto? Bisogna affidare i propri pensieri solo e soltanto alla versione accettata e corretta della critica d’arte rappresentata dai siti webbe specializzati e dai leoni da tastiera?
Non è che devi aver vissuto per forza all’epoca di Napoleone per giudicare il suo operato. E, per osmosi, non è che devi per forza conoscere l’artista Nicholas Galanin per dire che la sua scultura di ferraglia davanti al ponte di Brooklyn per te fa cagare. Cos’ha fatto di male Piero Armenti? Ha fatto il guascone, ha fatto una cosa che negli anni Ottanta avrebbe fatto ridere e la cosa sarebbe morta lì, oggi invece, siccome i bimbi degli anni Ottanta sono diventati dei rompicoglioni embedded nelle cause giuste (le loro), il cinema messo su dall’influencer Armenti viene dissezionato dai secchioni annoiati da se stessi, da quelli che aprono la bocca per far passare l’aria tra i denti e allenano le dita sulla tastiera, da quelli che vengono reputati esperti d’arte e ai quali invece verrebbe da dire: “devi farne di strada bimbo se vuoi scoprire com’è fatto il mondo”. Ma andassero a lavorare…
Però però: per buttare giù Pasolini devi aver letto qualcosa che vada al di là del suo pezzo pubblicato dal Corrierone dove dice di stare dalla parte dei poliziotti. Se vuoi fare una stroncatura, almeno un paio di argomentazioni le devi mettere, altrimenti cosa facciamo, buttiamo via Fausto Melotti?, buttiamo via Gillo Dorfles?, buttiamo via pure l’Alberto Sordi e consorte che fanno la figura dei burini alla Biennale di Venezia? Se bastano uno smartphone e un’opinione, per diventare interessanti davanti alla ferraglia sito specifica a N. Y. sputtanata da Piero Armenti, allora siamo tutti critici, abbiamo tutti qualcosa da dire che interessa pure gli altri. E invece no: avere uno smatphone e un’opinione non basta per farsi dare la patente di critici. Neanche al giorno d’oggi.
Umberto Eco diceva: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli”. Ma il prode Armenti non è affatto un imbecille, anzi, questa sua rivolta così anacronistica rispetto al politically correct di oggi lo rende simpatico. Io non so se scultura di fronte al ponte di Brooklyn faccia cagare, dipende da come è contestualizzata. Per esempio: è brutta la scultura di Fausto Melotti davanti all’Hangar Bicocca nostrano? Non è, di riffa o di raffa, la stessa ferraglia? Quella scultura newyorkese non è nulla di diverso dalla scatola di scarpe di Orozco alla Biennale ’93, nulla di diverso dal dito di Cattelan in Piazza Affari, nulla di diverso da qualsiasi bastone appoggiato alla parete di una galleria o di uno stand in una fiera d’arte contemporanea. Le trovate artistiche sono quello che sono, niente di più e niente di meno del grande gioco dell’arte contemporanea avviato da Andy Warhol quando ci convinse che quegli scatoli di detersivo, i famosi Brillo Box, erano delle opere d’arte mentre tutto il resto era noia.
E, nel caso dell’arte pubblica sputtanata dal prode Armenti, gli operatori di settore ci mettono il loro carico da novanta facendo gli indignati bru bru e partecipando al grande gioco dell’arte contemporanea dove ognuno fa la sua parte: il provocatore voglioso di universalità, i sapientoni che si indignano perché non gli ha baciato la pantofola e il pubblico che ci crede.
L’arte contemporanea è, da sempre, sintetizzabile nel titolo dell’album dei Sex Pistols: The Great Rock ‘n’ Roll Swindle, cioè la grande truffa del rock’n’roll. Cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia: l’arte contemporanea è questo, una truffa seria, un impegno gaiamente lieve e necessario, uno spettacolo come quando Berlusconi da Santoro pulisce la sedia dove si è seduto Travaglio e in segreto fuori di telecamera dice al conduttore: “Michele, ma quanto ci stiamo divertendo!”.