Ho visitato Nashville e mi sono accorta di quanto possa essere potente la musica. Non sarebbe servito andare così lontano, è vero. Però ha aiutato.
Per chi non la conoscesse, Nashville è la capitale dello stato del Tennessee (USA), nella contea di Davidson. Lo stato confina con Missouri, Kentucky, Virginia, Carolina del Nord, Georgia, Alabama, Mississippi e Arkansas. La città è grande, come si immaginano tutte le città americane, o almeno, come le immaginavo io: grattacieli, ponti, insegne luminose e palazzoni, che rendono il panorama mozzafiato, anche se simile a quello di tutte le altre. La città, più che per il suo piatto tipico – pollo piccante, che è piccante per davvero – è conosciuta per essere “la città della musica”, sede del Grand Ole Opry, noto programma radiofonico di musica country, della Country Music Hall of Fame e di varie case discografiche.
A Nashville, ci si muove principalmente in auto o in taxi. Gli autobus esistono, sono viola, e coprono alcune tratte del centro, ma i residenti generalmente non li usano. E i turisti poco. Al centro, nessuno arriva camminando, anche se potrebbe. Meglio la macchina. Sarà per tutto questo: perché ero in auto, perché fuori faceva caldo e avevamo i finestrini chiusi e l’aria condizionata attivata, perché non mi aspettavo che l’essenza di una città potesse essermi trasmessa in pochi secondi, con un gesto solo, che quando la mia amica ha abbassato il finestrino, mentre mi diceva “Questa è Broadway!”, io sono rimasta senza parole.
Broadway è una via centralissima, che sembra dividere la città in due, quasi in corrispondenza del ponte sul fiume Cumberland. È preceduta da una lieve salita e da un semaforo che, in quel momento, era rosso. Quando è scattato il verde, con l’abbassarsi del finestrino, nella mia testa è scoppiato il caos. Un caos fatto di suoni: musica a tutto volume che esce fuori dai locali con le porte spalancate, come a dire “Entrate, è aperto”; band che accordano gli strumenti musicali per la serata, generi differenti che si mischiano e si scontrano nell’aria. “Questa è Broadway” stava dicendo la mia amica, e io, davanti a tanto rumore, rimanevo zitta, e ascoltavo. Il rombo delle macchine, il suono dei passi, le parole biascicate dagli ubriachi, le risate dei gruppi di ragazze che festeggiano l’addio al nubilato, tutte con stivali texani e una sola con un cappello a falda larga, da cui pende una fascia su cui si legge “Bride to be”. E fischi, e canti, e grida.
Nashville è la patria della musica country, di un genere che si chiama honky-tonk – derivazione del ragtime, vivace e ben composto, che risalirebbe agli anni Quaranta – e, nel tempo, avrebbe ospitato, nell’immaginario, Hannah Montana e, nella realtà, Taylor Swift: l’una, protagonista di una serie televisiva che ha fatto impazzire gli adolescenti; l’altra, di un fenomeno che, a intervalli, sconvolge e fa rabbrividire. Alla seconda, è dedicata una panchina, in un parco della città, vicino al Partenone, costruito sul modello dell’originale ateniese, con una targa: “For Taylor Swift. A bench for you to read on at Centennial Park. Welcome home, Nashville”.
“Benvenuti a casa”, dove la musica si respira davvero. Non mi sono stupita che l’abbia respirata anche Taylor Swift, a cui, infatti, è dedicata l’intera prima parte del Country Music Hall of Fame, uno dei più grandi musei al mondo di musica popolare. Il museo riavvolge l’intera storia della musica country o country music dalle origini – dalla musica tradizionale del Sud degli Stati Uniti e da quella folk degli immigrati inglesi e irlandesi – passando per le contaminazioni (bluegrass, musica western, western swing, Cajun, Honky tonk), i primi successi del cantante Vernon Dalhart, fino agli artisti contemporanei, che hanno segnato il country moderno, tra cui Jimmie Rodgers e la Carter Family. È negli anni Sessanta che la country music diventa un’industria, trovando in Nashville il suo centro, e aprendo il genere al grande pubblico con sonorità nuove e pop, raggiungendo un successo mai visto prima di allora. Nei decenni successivi continuerà la sperimentazione, nelle variazioni musicali – country tradizionale, reazionario, poi alternativo, rivoluzionario o neo tradizionale – con l’avvicinamento al rock e al punk.
Broadway concentra decenni di storia della musica: da ogni porta aperta, ogni finestra, ogni passo percorso all’interno, ogni drink, ogni locale che nel nome ha la scritta “bar”, “live music” o “Nashville”, ogni piede che tiene il ritmo sotto il tavolo, ogni mano che batte il tempo, ogni cantante che dice di aspettare il gruppo successivo, perché è uno dei suoi preferiti in città, ogni frase di chi, per lavoro e per cortesia, invita ad ascoltare, ogni applauso a chi si esibisce dal vivo, anche davanti a tre persone, anche se fuori piove e, in quel locale, non si sarebbe entrati se non ripararsi, ogni sorriso di chi, come me, era sperduto in mezzo al caos. “Questa è Broadway” diceva la mia amica, continuando a guidare. E io non avrei voluto più chiudere il finestrino.