Non è più tempo per la distanza, per l’obiettività da manuale, per lo sguardo neutro. Il World Press Photo Contest 2025 lo dimostra con violenza e grazia: oggi il fotogiornalismo è carne viva, tensione politica e corpo a corpo con il reale. Lo sa bene Cinzia Canneri, fotografa italiana che ha vinto il premio per il miglior progetto a lungo termine nella regione Africa per conto dell’Associazione Camille Lepage. Un premio importante, certo, ma soprattutto un segnale: l’Italia sa ancora raccontare il mondo dove brucia, sa ancora scattare con onestà, dove c’è bisogno di presenza e non di spettacolo.
Il concorso di quest’anno ha premiato 42 progetti, ampliando rispetto al passato sia la varietà geografica che quella tematica. Le immagini selezionate sono state scelte tra oltre 59.000 fotografie, inviate da 3.778 fotografi di 141 paesi. Non sono belle fotografie. Sono fotografie necessarie. Parlano di crisi climatica, di migrazioni, di conflitti, ma anche di affetti, identità, corpi fragili e vite a rischio. Il loro compito non è piacerci, è costringerci a guardare. E restare.
Dal Kenya a Gaza, da Haiti al Myanmar, il racconto è un mosaico fatto di rabbia e silenzi. Proteste, guerre dimenticate, volti segnati. C’è un adolescente transgender nei Paesi Bassi, c’è un bambino palestinese a cui manca una gamba, una ragazza ucraina sopravvissuta al trauma, un giovane sudanese che sposa la propria speranza in una giornata sospesa. E c’è Tamale Safale, il primo atleta disabile ugandese a sfidare i normodotati in pista. C’è l’umanità, insomma. Quella che resiste, anche quando tutto crolla.

In mezzo a questo affresco potente, la voce di Canneri emerge per la sua capacità di non sovrastare il soggetto. Le sue fotografie sono esatte, sobrie, scavate. Non cercano il sensazionalismo, ma la verità scomoda, ambigua, complessa. Come ha ricordato Joumana El Zein Khoury, direttrice esecutiva del World Press Photo, “oggi è più facile che mai scorrere oltre, distrarsi, disimpegnarsi. Ma queste immagini non ce lo permettono”. E Canneri non ce lo permette.
La presidente della giuria globale, Lucy Conticello (Le Monde), ha parlato di “immagini che innescano conversazioni”. È una definizione perfetta. Perché quello che accade davanti a queste fotografie è un’interruzione. Una fenditura nel rumore. E uno spazio critico da attraversare.
Il 2025 segna anche il 70° anniversario di World Press Photo, nato nel 1955, quando il mondo sembrava più semplice – o forse solo più ignorato. Oggi la competizione è più globale che mai: 30 vincitori su 42 provengono dai paesi in cui hanno realizzato i loro progetti. È un fotogiornalismo che parla da dentro, non più dall’alto.
La mostra mondiale, che aprirà il 18 aprile ad Amsterdam, toccherà oltre 60 città tra cui Roma, Genova, Torino, Bologna, Bari, Lucca. E ognuna di queste immagini sarà visibile anche online, perché il mondo ha bisogno di guardarle. Di fronte, non di lato.
World Press Photo ha escluso l’uso di immagini AI. Nessun algoritmo può restituire l’empatia, il rischio, la responsabilità che queste fotografie portano con sé. I file sono stati verificati da due analisti digitali indipendenti. È la garanzia che qui si parla ancora di fotografia come gesto umano.
Il 17 aprile sarà annunciato il vincitore assoluto del Photo of the Year, ma il punto non è chi vince. Il punto è chi riesce a farsi vedere. A resistere al tempo breve