Qual è stato il momento in cui il concetto di “cibo”, più che a quello di “nutrizione”, si è avvicinato all’assonante, ma fortemente dissimile, concetto di “distruzione”? Quando è stata la prima volta in cui abbiamo smesso di chiederci cosa stessimo mangiando e abbiamo continuato, comunque, a masticare? Come abbiamo cominciato a non interrogarci più sulla provenienza dei prodotti che consumiamo ogni giorno e che affollano gli scaffali dei supermercati che frequentiamo? Davvero crediamo che comprare un avocado una volta a settimana, per condire un’insalata, offrire guacamole e nachos ad amiche e amici, fare dei toast vivaci e sorprendentemente verdi, non implichi nessuna conseguenza? Come abbiamo smesso di sentirci responsabili davanti a ciò che ci si presenta in varie forme nel piatto e in cucina? E soprattutto: lo siamo mai stati?
Se uno degli obiettivi della terza edizione di Yeast Photo Festival – festival internazionale di fotografia, visitabile fino al 3 novembre in vari luoghi della provincia di Lecce – direzione artistica di Edda Fahrenhorst e direzione generale di Flavio&Frank e Veronica Nicolardi, è quello di porre delle domande, il risultato può dirsi riuscito. E se, in minima parte, ciò che è in mostra, al Palazzo Marchesale del Tufo di Matino o nella Macelleria Ex Nau o nell’Ex Oleificio Barone o a Palazzo Scarciglia o nel Chiostro dell’Antico Seminario a Lecce, passando per esposizioni, talk ed eventi diffusi, che attraversano oltre 100 chilometri di entroterra nel basso Salento, riuscirà a offrire anche solo una risposta, allora il festival avrà raggiunto, ancora una volta, il suo scopo.
«Parlare di cibo è parlare di vita, di quello che ci circonda» mi spiegano dall’organizzazione, evidenziando, quanto, ormai sempre più spesso, parlare di cibo significhi anche parlare di morte. A morire, non sono solo gli animali negli allevamenti intensivi – immagine a cui, chi più chi meno, siamo esposti quasi quotidianamente – ma anche chi lavora a contatto con la terra, chi vive (e si ammala) di agricoltura, circondato da pesticidi e prodotti chimici che gli rovinano la pelle, escoriano i volti, lasciano tumefatto il corpo e tolgono la fame e il respiro.
A morire è il suolo, infestato, come l’uomo, dagli stessi prodotti che dovevano servire a rendere i suoi campi più floridi, i suoi frutti più grandi, i suoi prodotti più appetibili e le sue piantagioni più rigogliose. E ci sono riusciti, a rendere i campi floridi, i frutti grandi, i prodotti appetibili e le piantagioni rigogliose. Ma a che prezzo? Oltre quello di 4,99 euro al chilo per kiwi che hanno attraversato l’oceano per arrivare, ammaccati per metà, nel nostro cestino della spesa?
«From Planet to Plate» è il titolo scelto per l’edizione 2024 di Yeast e non potrebbe essere più drammatico di così. «Dal pianeta al piatto» è il principio per cui andiamo a comprare frutta e verdura al mercatino della domenica in piazza, prendiamo i formaggi al caseificio di fiducia, scegliamo i barattoli di miele con le api che, poste lì accanto sul banchetto, ci guardano dall’alveare e chiediamo conto della provenienza della carne e del pesce che mangiamo, confidando che sia, se a non a chilometro zero, almeno molto vicino.
Se facciamo qualcuna di queste cose, se ci fermiamo a comprare le uova di galline allevate a terra, o almeno proviamo a leggere l’etichetta, siamo già sulla via che ci include in consumatori e consumatrici consapevoli. Non perfetti, neanche impeccabili, ma informati e coscienti delle scelte che si fanno e di ciò che decidiamo di portare nelle nostre case, e nei nostri corpi. Non è poco.
«Dal pianeta al piatto», però, è anche il percorso più lungo e artificiale che un prodotto possa compiere. Lo dimostrano, tra gli altri progetti, le fotografie di Pablo Ernesto Piovano, che in mostra espone The Human Cost, il racconto in bianco e nero di famiglie che vivono tra gli stenti, martoriate dal lavoro e della mancanza di cibo, e che portano sulla pelle, e sotto di essa, gli effetti dello sfruttamento e della devastazione; quelle di Kadir van Lohuizen, con Food for Thoughts, che ha ripercorso una filiera che coinvolge Kenya, Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Cina fino all’Europa e di Axel Javier Sulzbacher che, in Green Shades, racconta come la criminalità messicana si sia impadronita di tutto, piantagioni, prodotti e distribuzione, per controllare il mercato della produzione ed esportazione di avocado, devastando il territorio e minacciando la popolazione dello stato di Michoacán.
«Dal pianeta al piatto» è la metafora di quanto piccolo possa essere il nostro punto di vista, del diametro di un piatto, appunto, che spesso non supera i venti centimetri. Consumato, scheggiato, imbruttito, o perfettamente intatto e lucido, non importa cosa ci sia fuori dai suoi confini, perché basta che serva al suo scopo. Fuori dal piatto, il pianeta, una volta intatto, oggi è davvero consumato, maltrattato e agonizzante e lancia costanti grida di allarme. Tra la crisi climatica, la povertà delle popolazioni e la miseria dell’esistenza di chi non può scegliere di cosa vivere e per cosa lottare, Yeast è un sofferto grido di allarme. Per quanto ancora potremo accontentarci di vedere solo all’interno del nostro piatto? Prima o poi ci toccherà alzare lo sguardo.