L’anima segreta di Sandro Somarè alla Fondazione Galleria Milano

Esistono artisti che percorrono la propria epoca in punta di piedi, lasciando tracce delicate, quasi invisibili. E poi ci sono quelli come Sandro Somarè, che della loro epoca diventano la voce segreta, il sussurro che si mescola al frastuono del mondo. La mostra che la Fondazione Galleria Milano gli dedica è molto più di un semplice tributo: è un’esplorazione tra i chiaroscuri di un percorso artistico e umano che ha saputo attraversare il tempo senza lasciarsi intrappolare dalle sue definizioni. Curata da Nicola Pellegrini, Ornella Mignone e Bianca Trevisan, l’esposizione ci guida attraverso un’arte che sfugge ai generi e alle facili categorizzazioni, rivelando una poetica che si è trasformata con una coerenza quasi sotterranea, al ritmo di un respiro trattenuto, come se ogni quadro fosse una finestra aperta su un mondo interiore che, a ogni sguardo, si rinnova e si approfondisce.

Si parte dagli esordi, quegli anni Cinquanta che odorano di promessa e di inquietudine, quando l’artista si affaccia alla vita con lo sguardo curioso di chi sa di avere tutto da scoprire. I primi paesaggi sono una carezza fatta di colori, una grammatica del visibile che cerca il proprio lessico tra le forme della natura. Poi, lentamente, il linguaggio si fa più deciso, quasi tagliente: è l’architettura che diventa metafora, specchio di un’esistenza che si fa sempre più geometrica e solitaria. Le opere di Somarè non si limitano a rappresentare luoghi, ma li evocano, li trasfigurano. È come se l’artista, nel suo dialogo con la tela, cercasse una verità nascosta dietro le superfici, un segreto custodito nei muri silenziosi di una città che muta e si allontana, che si perde nella memoria e si ricompone nel ricordo.

E poi c’è Milano, la città che non è solo sfondo, ma vera e propria protagonista. Da Porta Nuova (1969) a Piazza Conciliazione (1970), Somarè dipinge la sua città con una nostalgia lucida, un amore che si nutre di distanza. Le case liberty, gli ingressi maestosi, i cortili segreti: ogni pennellata è un omaggio a una Milano che forse non esiste più, che sopravvive solo negli interstizi della memoria, nei dettagli apparentemente insignificanti che diventano poesia pura. E proprio come un poeta che misura le parole, Somarè misura i colori: la sua tavolozza si riduce, si concentra, si essenzializza. Sono grigi, sabbia, azzurri diafani a dominare le sue tele, a raccontare di un mondo che si è fatto sobrio, quasi ascetico.

Ma è negli anni finali, quando l’artista si confronta con il poeta Hölderlin, che la sua arte raggiunge un vertice di lirismo assoluto. Le opere della serie Hölderlin sono canti visivi, preghiere mute che si rivolgono a un cielo lontano, forse irraggiungibile. Qui il blu si fa intenso, profondo, come un abisso in cui perdersi. È un colore che sa di infinito, che parla di solitudine e di speranza, di perdita e di ritrovamento. Somarè si avvicina così all’essenza stessa del dipingere: non più rappresentare, ma evocare, non più descrivere, ma suggerire. È un’arte che si fa sempre più rarefatta, un soffio leggero che sfiora la tela, che lascia intravedere qualcosa al di là del visibile, come un sussurro appena accennato.

In queste stanze, ogni cosa sembra trattenere il respiro. La luce, appena accennata, scivola su superfici che raccontano di un mondo sospeso, fatto di geometrie silenziose e presenze invisibili. È come se Somarè avesse costruito un dialogo segreto tra architettura e assenza, tra rigore formale e dissolvenza.

Ci sono spazi che accolgono e altri che respingono, luoghi dove la memoria si scontra con il vuoto, dove la figura umana diventa un’eco lontana, quasi un’ombra. La linea e il colore si fanno essenziali, privi di qualsiasi ornamento superfluo, e proprio in questa nudità trovano la loro potenza. Ogni angolo è una rivelazione muta, una storia interrotta che suggerisce, più che dire. Il silenzio diventa protagonista, un silenzio che parla di solitudine e di sguardi perduti, di attese senza fine.

Quella di Somarè è una pittura che non consola, non cerca risposte, ma interroga. Interroga chi guarda, costringendolo a fermarsi, a cercare un senso tra quelle linee che non si incontrano, tra quei confini che sembrano volersi sciogliere, senza mai farlo davvero

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