JR è il drone umano del neoumanesimo postdigitale, uno che è salito letteralmente in alto per decriptare il valore identitario del volto, reso fattore antropologico di una psicogeografia collettiva, in equilibrio tra natura (monumentum) e cultura (documentum), lungo fisionomie low-fi che diventano icone “sacre” nel processo fotorealista delle stampe in bianconero tabloid.
L’umanità di JR crea isole emozionali sui pavimenti delle città, su facciate e muri ma anche nei luoghi a bassa contaminazione (come nel corto con Alice Rohrwacher dal titolo Omelia Contadina). I suoi volti enormi parlano di esseri umani che si fanno paesaggio attraverso difetti, rughe, età, dolori, passioni, rendendo il gigantismo un seme attivo – come i due fotocorpi del film con la Rohrwacher – dentro le pratiche condivise dell’artivismo pubblico.
Questi collage mi rimandano ad Antonio Presti nel suo viaggio utopico in una Sicilia della rinascenza dal basso, quando affisse in pubblico i volti fotografici della vera periferia sociale (Terzocchio – Meridiani di Luce, 2002, Catania). JR sembra partire da quel tragitto virgiliano di Presti, da una frequenza inclusiva che coinvolse il popolo in un dialogo che oggi scavalla nel rito moltiplicatorio dei social media, dove ogni lateralità coglie l’occasione di una reale rinascita, quantomeno in termini di reazioni a catena mediatica.
Nel frattempo, dopo anni di nomadismo globale, JR è approdato nei solidi templi dell’arte, e oggi se la gioca da cavallo di razza urban nelle scuderie di Perrotin e Continua. Con progressioni rapide, mentre ritrae superstar tipo Lewis Hamilton e Robert De Niro, ecco il paesaggio – bianconero ma anche a colori – diventare la sua cifra primaria. I luoghi si assumono l’onere della crepa spaventosa, del solco che scava sotto la Torre Eiffel o nel cuore della Roma antica, che seziona Palazzo Strozzi a Firenze o Palazzo Farnese a Roma, secondo fenditure sismiche dal tenore geologico, dentro quel corpo caldo che è la memoria stratificata del canone occidentale. Una land art immaginica e scenografica, frutto di mimetismi in scala reale ma anche di nuove dimensioni sul piano della stampa fotografica, obiettivo ultimo sia per il mercato che investe su oggetti di stazza domestica, sia per il documento che offre la visione ideale dell’opera.
È questa la via virtuosa dell’arte ambientale, un ponte di contatto tra vero e falso, analogico e digitale, micro e macro, totalità e dettaglio; un’arte che si fa politica nel modo di trasformare il realismo dei luoghi, mescolando memorie e veggenze, verità e finzioni storiche, superficie e stratificazioni.
La città finalmente aperta, le facciate dei palazzi finalmente aperte: l’interno diventa pubblico, il privato diventa collettivo, il mondo che si ribalta in un caleidoscopio senza fine…