È fuor di dubbio che uno dei lati più interessanti del girar per mostre in Italia sia quello di potersi interfacciare con un’infinita varietà di cucine locali e ristoranti di altissimo livello, autentiche oasi di ristoro, alla fine di un estenuante e concentrato percorso espositivo.
L’agognata polpetta di Virginiae a Roma, o l’insuperabile tagliolino al tartufo dell’Hostaria in Sant’Eufemia a Brescia, possono addirittura diventare, di per sé, il motivo scatenante per rivedere la Borghese o Ceruti in Santa Giulia. In uno stranissimo giorno primaverile di novembre, il navigatore dell’auto fa rotta verso palazzo Te a Mantova, gioiello del potere gonzaghesco mirabilmente affrescato da quel sublime Giulio Romano che, proprio qui, arriva a quello che i greci chiamavano l’akmè: il punto massimo di espressione artistica che un uomo può raggiungere. Qualcosa terribilmente prossimo al divino, tanto per intenderci.
In questa cornice straordinaria, s’inserisce il progetto di mostra della curatrice Raffaella Morselli con la collaborazione di Cecilia Paolini, che riporta sulle rive del Mincio un altro artista di fama internazionale, il fiammingo Pieter Paul Rubens (Rubens a Palazzo Te, Pittura, trasformazione e libertà, aperta fino al 7 gennaio 2024). L’evento si riconnette in maniera evidente alla mostra da poco inaugurata a Roma presso la Galleria Borghese della curatrice Francesca Cappelletti e che si inserisce in un contesto di celebrazioni rubensiane che si muove proprio sull’asse Roma-Mantova.
Tornando a noi, avranno sicuramente sorriso le addette il book shop, nel vedermi transitare in quell’ambiente per ben tre volte, biglietto alla mano, stessa espressione di Vincent Vega in Pulp Fiction, prima di trovare finalmente l’inizio del percorso, che, come avrete capito, non è così evidente. In questo girovagare mi sono imbattuto in una simpaticissima coppia di toscani, che vagava aprendo e chiudendo porte un po’ come Dante per l’inferno, senza purtroppo aver l’ausilio di quel grandioso mantovano del buon Virgilio.
Una volta compresa la labirintica impostazione del giro si entra nel vivo della partita, giocata da subito su ritmi altissimi con le corrispondenze create nella Sala di Amore e Psiche. In questa “grotta” si consuma uno dei più audaci ed altamente erotici cicli della storia dell’arte italiana. Tra satiri in evidente stato di eccitazione e facce da post orgasmic chill, si viene totalmente catturati dalla libertà espressiva e dal mirabile pennello del Romano.
Abilmente, la curatrice riesce a far dialogare l’impianto giuliesco con alcuni selezionatissimi dipinti di indiscutibile fattura, tra i quali spiccano senza dubbio le Tre Grazie di Rubens ed il Satiro che suona un flauto di Jacob Jordaens (segnatevi questo nome).
Il gioco di rimandi e collegamenti con le grandi antichità giuliesche è del tutto riuscito anche nelle sale successive, dove i percorsi mitologici del grande architetto e pittore si legano ad opere sublimi, come la tavoletta di provenienza spagnola con il soggetto del Ratto d’Europa della mano di Rubens ma ancor più ai veri capolavori come Il ritrovamento di Erittonio ed il Pan e Siringa, entrambi di quel Jordaens di cui sopra.
L’intermezzo offerto dal passaggio attraverso la sala dei Giganti è tutt’altro che rilassante, anzi, aumenta i battiti fino ad accelerazione massima, prima di offrire un ultimo sguardo all’arredamento (per dirla con Morgan).
Mai citazione fu più calzante, perché l’ultimo passaggio di questa corsa verso l’alto, ci porta a scoprire come decise di arredarsi la casa quel genio folle di Jordaens che “semplicemente” riportò nel soffitto della sua abitazione ad Anversa una fedele citazione della Sala di Amore e Psiche: praticamente se la copiò totalmente (o quasi) in casa, con un’attenzione al dato qualitativo di primissima linea, E un’ossequiosa reverenza verso il grande Giulio Romano.
Questa è la sezione della mostra che risulta indubbiamente più straordinaria e scenografica, un allestimento da grande museo internazionale quale Palazzo Te sicuramente è. Credo di aver passato un buon quarto d’ora sdraiato sull’unica seduta disponibile per godermi questo incredibile spettacolo, tra gli sguardi perplessi dei passanti che poco e nulla avranno compreso di questa mirabile invenzione espositiva.
Ovviamente ci sono anche i tre mastodontici dipinti rubensiani che atterriscono e soverchiano, mi riferisco al Democrito ed Eraclito, alla Crocifissione ed al michelangiolissimo Ercole proveniente dalla Sabauda ma, che per me, non hanno assolutamente riscosso più successo della macchina da soffitto inventata da Jacob per la sua “umile” dimora.
Ma vi confido che, più in generale, al di fuori dalla curiosità che un nome come quello di Rubens è sempre in grado di suscitare, il vero campione che viene fuori da tutto questo progetto è davvero il nostro Jordaens. Perché, diciamoci la verità, alla fine il buon Rubens, sarà anche un grande personaggio (è stato infatti non solo pittore, ma anche mercante d’arte, art advisor per i potenti dell’epoca e financo ambasciatore), ma pittoricamente è un bel po’ ripetitivo, anche quando riesce finalmente ad italianizzare il suo linguaggio nordico.
Tutte le volte che lo guardo, anche nelle sue esternazioni più interessanti, mi ricorda un soufflé di formaggio che mangiai alcuni anni fa all’Epicure di Parigi: esteticamente perfetto, non c’è dubbio, ma sempre un po’ “troppo”: troppo gonfio, troppo soffice e troppo pieno.
Jordanes invece ha quel carattere salato e morbido che invece è proprio del riso alla pilota, eccellenza mantovana, che mi ha ristorato subito dopo l’infilata di rigonfie tasche di formaggio parigine a cui mi ero volontariamente sottoposto.