Lui è stato il fotografo della quotidianità, trasformata in immagini che oscillano tra il sogno e la realtà metafisica e diventano quasi trascendentali. André Kertész è diventato un fotografo per vocazione, con una carriera iniziata con scatti amatoriali nel suo paese natìo, l’Ungheria e proseguita definitivamente a Parigi negli anni ’20 e ’30 e negli Stati Uniti, fino alla sua more nel 1984.
Fino al 4 febbraio 2024, la mostra “André Kertész. L’opera 1912-1982” nelle sale di Camera – Centro Italiano per la Fotografia di Torino, realizzata in collaborazione con la Médiathèque du patrimoine et de la photographie (MPP) di Parigi, offre compendio dell’immensa opera del fotografo, attraverso centocinquanta immagini che tracciano l’evoluzione artistica di Kertész, sotto l’attenta cura di Matthieu Rivallin e Walter Guadagnini.
Le prime immature ma promettenti sperimentazioni iniziano per Kertèsz proprio nel 1912, all’età di 18 anni. Da giovane impiegato alla Borsa di Budapest, Andrè fotografa tutto quello che lo circonda, con un approccio fanciullesco, di stupore ed esaltazione dell’attimo “bucolico”, una gioia che permea anche i suoi autoritratti. “Fotografavo tutto ciò che avevo intorno, uomini, animali, la mia casa, le ombre, i contadini, la vita. Ho sempre fotografato ciò che l’istante mi rivelava”, parole che esprimono l’acuta spensieratezza di questi suoi gesti pionieri, rotta poi dallo scoppio della prima guerra mondiale. Arruolatosi tra le fila dell’impero austro-ungarico, Kertèsz continua ad immortalare distruzione e terrore, sempre con il suo sguardo stupefacente, fino a quando, a conflitto terminatao, nel 1925 una sua immagine viene pubblicata sulla prima pagina di un giornale ungherese: Kertész è ormai pronto per il salto nella capitale culturale del mondo, Parigi.
Trasferitosi nella capitale francese nel 1926, Kertész respira e immortale l’atmosfera unica della belle epoque, dedicandosi sia a ritratte gli intellettuali dell’epoca, come Piet Mondrian, ma anche donandoci ancora gli attimi eterni di una normale passeggiata mattutina tra Montparnasse e Montmartre. Non solo, nelle sue fotografie Parigi è colta nelle sue sfumature insolite e “dark”, con le ombre che si allungano fino ad essere i soli protagonisti e nei ritratti surrealisti delle “Distorsioni”, dove gli specchi deformanti dei Luna Park sono stavolta dei medium per dilatare e liquefare la forma in nuovi risultati estetici.
Dieci anni dopo, nel 1936, Andrè è ormai famoso, lavora per riviste di moda e i suoi reportage paesaggistici sono famosi in tutto il mondo. Decide così ancora una volta di saltare al centro del mondo, in quella New York che tanto prometteva per la seconda parte della sua carriera e vita. Non sarà così, e nella grande mela le commissioni e a i lavori saranno sempre più difficili, ma questo non gli impedisce di trovare un nuovo punto di vista, privilegiato, verso la brulicante quotidianità americana: la finestra di casa sua. Da questo punto, in un lockdown quasi forzato, l’isolamento dona una nuova patina alle le forme dei tetti, le scene di strada, in una trasposizione che è ancora trascendenza poetica.
Solo alla metà degli anni Sessanta il suo lavoro viene riconosciuto come quello di uno dei grandi maestri del XX secolo, e questo ridà anche nuova linfa alla sua creatività. Ormai celebrato in tutto il mondo, Kertész conclude la sua vicenda creativa con un’ultima sperimentazione, la fotografia a colori, a cui si avvicina quando è già più che ottantenne, a dimostrazione della curiosità che ha sempre animato la sua personalità.
La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Dario Cimorelli Editore e gode del patrocinio dell’Accademia d’Ungheria, della Regione Piemonte e della Città di Torino.