Il più piacevole dei paradossi legati all’attività archeologica è che, nonostante questa si rivolga essenzialmente a cose “morte e sepolte”, immobili ed immote, sigillate e bloccate nel tempo dalla terra, ciò che più interessa ai suoi operatori è, piuttosto, l’indagine del mutamento. Riportare alla luce un manufatto umano non ha senso se il suo rinvenimento e il suo studio non sono collocati in una dimensione temporale che chiarisca e analizzi cosa ha portato a cosa, cosa ha prodotto cosa, i rapporti di un dato oggetto o fenomeno con ciò che viene prima, con ciò che è coevo e con ciò che viene dopo. È solo una volta compreso questo che l’archeologia smette (e ha smesso) di essere una caccia al tesoro per diventare – finalmente – uno studio scientifico realmente proficuo.
Anche se tecnicamente è sotto gli occhi di tutti, è sempre bene ribadire che ogni insediamento umano, ogni luogo che l’uomo condiziona con la sua presenza e la sua attività, muta costantemente nel tempo. Continui eventi, costruttivi o distruttivi, ne modificano (anche radicalmente) l’aspetto, e ciascuno di questi eventi è un tassello del puzzle che l’archeolog* deve ricostruire. Questi tasselli possono lasciare un segno, che può essere visibile, e che ci consente – ad esempio – di ammirare un palazzo cinquecentesco e un tratto di mura di epoca romana lungo la stessa via, via che – magari – è stata appena riasfaltata, o che può essere invisibile, perché celato sottoterra.
Tutte queste tracce si sovrappongono le une sulle altre, come strati di una torta, e la stratigrafia, cioè il modo in cui questi strati si relazionano tra loro, comunicano tra loro, è proprio ciò che in primis l’archeolog* è chiamat* a leggere e interpretare. Una lettura e un’interpretazione che sono condotte a ritroso, poiché più ci muoveremo dalla superficie alla profondità, più, ovviamente ma solo idealmente, muoveremo dal recente all’antico.
Provate a immaginare siti di occupazione in cui l’attività dell’uomo si è susseguita per secoli e millenni, costruendo, distruggendo, scavando, livellando il terreno per ricostruirvi ancora sopra. A questo facevamo riferimento quando – in relazione a Troia – si parlava di quarantasei fasi di costruzioni e di dieci livelli di occupazione. Strati su strati su strati che, in alcune zone, hanno finito per creare delle vere e proprie colline artificiali (la nostra Göbekli Tepe ne è un celeberrimo esempio). Tepe è il nome che tali colline hanno in ambiente anatolico e persiano, tell in ambiente mediorientale e di cultura araba, magoula o toumba in quello balcanico: veri e propri santuari dell’archeologia, monoliti del passato dell’uomo.
Ma perché è così fondamentale comprendere la stratigrafia di un luogo? Perché è il modo più sicuro di capirne la storia. La stratigrafia fotografa gli eventi e li mette in connessione, permette di formulare ipotesi sulle datazioni, sui modi di vivere e agire delle culture e dei popoli che lì hanno operato.
Perché un vaso o un muro non dicono molto se considerati singolarmente. Raccontano una storia solo se messi in relazione con ciò che li circonda.
In questo, e non nell’intrinseco valore, sta il loro essere “tesori”.