In linea con la sua “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, Adriano Pedrosa (curatore della 60. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia) ha proposto e assegnato i Leoni d’oro alla carriera all’artista brasiliana Anna Maria Maiolino e all’artista turca Nil Yalter. Due artiste che incarnano in pieno lo spirito di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere: se Anna Maria Maiolino è emigrata dall’Italia al Sud America, Nil Yalter si è trasferita dal Cairo a Istanbul e infine a Parigi, dove risiede. Le due vincitrici saranno premiate il giorno dell’inaugurazione della prossima Biennale il 20 aprile a Ca’ Giustinian. Approfondiamo storia, opera e pensiero di Anna Maria Maiolino.
Anna Maria Maiolino:
Il suo percorso artistico è un viaggio verso la riappropriazione di un posto nel mondo. Sentirsi senza radici, estranei rispetto alla vita e alla cultura di un popolo può portare a emarginarsi: la Maiolino grazie a un’anima raffinata e sensibile è riuscita a fare propria la cultura di un paese che è diventato la sua nuova casa.
Anna Maria Maiolino nasce, infatti, nel 1942 a Scalea, in Calabria, e nel ‘54 emigra con genitori, fratelli e sorelle alla volta del Venezuela, l’unico paese a pagare il passaggio via mare per i migranti italiani. L’artista racconta di questa esperienza come un trauma per essersi lasciata il proprio paese e la propria storia alle spalle con un’etichetta attaccata al bavero della giacca con la parola “immigrante”, che si rifiuta di mettere e tiene in tasca, ma anche come una liberazione perché finalmente potrà esprimere la propria soggettività e la propria sensibilità al di fuori di schemi e regole imposte dalla sua appartenenza.
Solo pochi anni dopo, nel 1960, la famiglia si sposta nuovamente, questa volta in Brasile, a Rio de Janeiro. È qui che l’artista, proseguendo gli studi presso la Escola Nacional de Belas Artes, si accorge che disegnare per lei rappresenta un rifugio e un conforto a una realtà estranea e, soprattutto, la aiuta ad allontanare i ricordi di un’infanzia difficile, trascorsa durante gli anni più duri della guerra.
Qui entra in contatto con il gruppo della Nova Figuração: Antonio Dias, Rubens Gerchman, Roberto Magalnhães e Carlos Vergara; con loro, nel 1967, partecipa alla mostra “Nova Objetividade Brasileira”, organizzata da Hélio Oiticica al Museo d’Arte Moderna di Rio de Janeiro. Nella seconda metà degli anni Sessanta, il fallimento del progetto del presidente Juscelino Kubitscheck de Oliveira e l’instaurazione di un regime militare repressivo portano gli artisti a cercare un tipo di linguaggio più popolare, lo trovano nel pensiero di Oswald de Andrade e del suo Manifesto Antopófago del 1928.
Anche se lo stile e le tecniche adoperate sono sempre e solo sue, la Maiolino condivide con gli altri artisti l’approccio creativo che la porta a sperimentare con tecniche appartenenti alla cultura popolare, ai cordels (poemi popolari, ndr), ovvero xilografie accompagnate da brevi poesie o filastrocche d’intrattenimento comunemente trovate nei mercati brasiliani. L’artista adotta la xilografia per avvicinarsi a un lessico visivo popolare, ma ritrae figure antropomorfe, spesso senza occhi e naso, con bocche aperte, dentate, pronte a divorare, e con gli organi dell’apparato digerente esposto.
Ma che cosa era il “Manifesto” di Oswald de Andrade? Nato negli anni Venti, quando la intellighenzia brasiliana aveva iniziato a interrogarsi sulla propria natura, aspirando a rendersi autonoma rispetto a quella prevaricante dei colonizzatori, Oswald de Andrade si era appropriato, quindi, dell’immagine dell’indigeno cannibale riportata nei resoconti dei colonizzatori per contrapporre alla cultura europea un’identità completamente diversa, antagonistica, quasi spaventosa, che potesse liberare definitivamente il Brasile da secoli di sudditanza politica e culturale.
Negli anni Sessanta allo stesso modo, l’antropofagia si propone di contrapporre alla politica del regime, sempre più repressiva e autoritaria, un’arte popolare, kitsch e associata spesso al “cattivo gusto”. In questo clima politico e culturale piuttosto intricato, Anna Maria Maiolino dà vita a opere come Anna e Glu Glu Glu, entrambe del 1967.
La prima rappresenta due figure che a bocca spalancata pronunciano, attraverso la tipica nuvola dei fumetti, il nome dell’artista. La seconda opera, Glu Glu Glu, rappresenta una sagoma bianca, con una grande bocca dentata, che siede davanti a una tavola imbandita. Sotto al tavolo è visibile l’apparato digerente in azione. Queste opere mostrano come Maiolino partecipi attivamente alla vita artistica brasiliana di quegli anni, trasformando in immagini il concetto dell’antropofagia di Oswald de Andrade.
Dal 1971, dopo un soggiorno a New York, comincia a utilizzare il corpo per esprimere la sua interiorità, quella dimensione intima e personale che altrimenti rimarrebbe nascosta. Il corpo rappresentato da Maiolino non proietta solo dall’interno all’esterno, ma, rifacendosi al Manifesto Antropofago, fagocita anche il mondo al di fuori, nel tentativo di riuscire a comprenderlo e interiorizzarlo.
Anche il suo primo film realizzato nel 1973, In-Out (Antropofagia), dimostra lo stretto legame con il pensiero antropofagico. Nel video l’inquadratura è fissa sulla bocca dei personaggi ed è talmente stretta che a malapena sono visibili il naso e il mento. Un uomo e una donna che tentano di parlare, senza riuscirci: dalle loro bocche spalancate e in continuo movimento non esce alcun suono, talvolta sono bloccati, prima da una striscia di nastro adesivo nero, poi da un uovo e da sempre più numerosi fili di tessuto.
L’impossibilità di esprimersi è un’aperta denuncia della censura in atto nel Brasile di quegli anni. L’assenza di parole e la loro sostituzione con un respiro affannato fanno riferimento al sofoco (soffocamento), con cui ci si riferiva agli anni più duri della repressione della dittatura militare. Un oggetto che compare per la prima volta proprio in In-Out (Antropofagia) e che diventerà fondamentale nell’iconografia di Anna Maria Maiolino è l’uovo dal quale nasce la vita: per l’artista diventa simbolo di fragilità e di resistenza.
Nel 1981 mette in scena Entrevidas, in cui decine di uova sono sparse sul pavimento e sfidano l’artista a percorrere lo spazio come fosse un “campo minato”, tenendo conto della fragilità e della precarietà dell’uovo, simbolo della vita stessa.
Una delle sue opere più celebri, Por un fio del 1976 (esposta anche a Milano nel 2019 durante la sua retrospettiva al PAC), mostra la Maiolino seduta tra sua madre e sua figlia nell’atto di tenere in bocca segmenti di corda, come a voler enfatizzare i legami familiari. Il linguaggio dell’artista ci parla di un legame, profondamente femminile, ed estremamente fiero e coraggioso nell’affrontare i divieti e le violenze maschili.
All’inizio degli anni Novanta intraprende la lavorazione dell’argilla, segnalando una nuova attenzione per l’hand-made e il rapporto con la materia terra, l’argilla, materiali elementari in sculture e rilievi che perdurano fino a oggi. Nel plasmarli per ore e ore, Maiolino attiva un rituale che scherzosamente associa alle domeniche passate in casa con sua mamma a tirare la pasta per la sua numerosa famiglia. Un rituale che richiama una radice profonda, un tassello della sua identità che si coniuga perfettamente con la dialettica antropofagica del Brasile il paese che l’ha accolta. La ricerca di Maiolino parte soprattutto dall’azione e dal lavoro manuale. I postulati estetici dell’antropofagia diventano per lei uno strumento importante: attraverso di essi esprime il bisogno e il desiderio di appartenere alla tradizione di un paese.
Per la prima volta alla Biennale Arte di Venezia, Anna Maria Maiolino esporrà una nuova opera di grandi dimensioni che prosegue e sviluppa la serie delle sue sculture e installazioni in argilla. L’opera di Maiolino indaga i rapporti umani, le difficoltà comunicative e di espressione, e percorre il labile confine tra fisicità e sfera intima e spirituale.
Sul suo sito l’artista parla così del suo lavoro: “Qui giace un desiderio immanente per la totalità”. E ancora: “La ricerca di esperienze di vita preindustriali e premoderne non ha l’intento di squalificare utopicamente la vita contemporanea, ma piuttosto di mostrarne l’unilateralità: in questo sta la contemporaneità di questi oggetti d’argilla, apparentemente così arcaici. L’esperienza e il pensiero in essi incorporati non appartengono a una cultura specifica e localizzata, ma esprimono valori comuni, universali, quotidiani…”.