Il suo funerale sontuoso, a Roma, nel 1807, lo organizza Antonio Canova, convinto che lei meriti i più alti onori. E se non è sepolta al Pantheon, accanto a Raffaello, è perché lei ha scelto di passare l’eternità insieme al marito. Così i fan hanno dovuto accontentarsi di porre, vicino all’Urbinate, solo il suo busto.
Bella, colta – è esperta di filosofia e di letteratura e parla quattro lingue – così talentuosa nel canto e talmente dotata nella pittura da trovarsi costretta a scegliere (lo racconta molto bene in un suo dipinto del 1794), Angelica Kauffmann è una figura unica e singolare nella storia dell’arte femminile. Forse perché lei, negli spazi dedicati all’arte femminile, proprio non ha voluto stare.
Oggi, finalmente, la Royal Academy di Londra – che lei ha contribuito a creare nel 1768, una delle due sole donne, insieme a Mary Moser, dei trentaquattro fondatori – la celebra fino al 30 giugno con una mostra che suona un po’ come una scusa (tardiva) e che ne ripercorre la vicenda con un allestimento tematico e al tempo stesso cronologico, partendo dagli autoritratti più celebri, attraversando la lunga epopea delle pitture di storia, raccontando il suo rapporto con l’Accademia e chiudendo con gli ultimi anni, il ritorno a Roma (la nascita in Svizzera e il legame con l’Inghilterra non cancelleranno mai il suo sentirsi profondamente italiana) e le grandi opere per i committenti più prestigiosi.
Angelica è una privilegiata: alla frequentazione da vicino dell’arte grazie a un padre pittore di successo, all’istruzione letteraria e filosofica e all’opportunità di viaggiare si aggiungono bellezza, savoir faire e un’intelligenza sottile. E anche una passione, per la pittura, che è come un fuoco.
Ogni spostamento del padre è l’occasione per affinare lo sguardo e imparare: Milano, Como e poi Firenze, Napoli, Bologna, Roma diventano per lei un immenso museo dove incantarsi davanti alla pittura rinascimentale ma anche davanti alle opere dei Carracci, di Guido Reni, di Guercino, mettendo a punto uno stile personalissimo, in perfetto equilibrio tra la grande lezione del passato, il neoclassicismo e una ricerca sul carattere e sulle emozioni dei personaggi già preromantica. È grazie a questo studio dell’arte che Kauffmann riuscirà a sfondare il muro che nel passato impediva alle donne pittrici di cimentarsi nella pittura di storia: l’handicap rappresentato dall’impossibilità di frequentare una scuola del nudo è superato qui dall’analisi dei dipinti del passato. E dall’aiuto di un amico, il collega Pompeo Batoni, che deciderà di mettere a sua disposizione una serie di disegni di nudi presi dal vivo.
I grandi dipinti storici o mitologici di Kauffmann avranno spesso per protagoniste – come già accaduto in altre artiste prima di lei – figure femminili forti, potenti, belle ma mai provocanti, come la sua Cleopatra che adorna la tomba di Marco Antonio, del 1769: la regina, per una volta, non è ritratta come una femme fatale dal fascino esotico, ma come una donna disperata, che si prende cura della sepoltura dell’uomo che ha amato.
E poi ci sono i ritratti. Che in breve, nelle città in cui si trova a trascorrere qualche tempo, diventano un must have. Kauffmann è in gamba, sa costruirsi un personaggio e sa mettere in atto un’efficacissima strategia di marketing, stringendo amicizie utili e puntando su un passaparola che nel suo caso funziona magnificamente. I suoi ritratti piacciono moltissimo: sono somiglianti e al tempo stesso rendono il soggetto più interessante, e poi sembrano entrare nell’intimità della persona, raccontarne le emozioni. Come quello che fa all’amico Winckelmann nel 1764, ritraendolo in abiti semplici, senza la parrucca incipriata, mentre scrive. O quello che nello stesso anno fa all’attore David Garrick, a Napoli, lasciandone emergere la figura vellutata da un fondo scuro, ombroso, e inquadrandola di tre quarti, appoggiata allo schienale di una sedia, con un taglio incredibilmente fotografico e originale.
È a Venezia nel 1865, a dipingere su commissione e a studiare Tiziano, Veronese e Tintoretto, quando incontra Lady Bridget Wentworth, la moglie del console inglese John Murray. Diventano amiche e la donna le chiede di seguirla quando rientrerà in patria. Angelica è entusiasta: fanno tappa a Parigi, giusto il tempo per innamorarsi del ciclo di Rubens su Maria De’ Medici al Palais du Luxembourg, e poi arrivano a Londra. La città spalanca le braccia a questa talentuosissima ventiquattrenne che sa conversare con spirito ed eleganza e in un attimo lei ha già conquistato il cuore di Joshua Reynolds, lì, allora, poco meno che una divinità. Ci sono vent’anni di differenza tra i due, ma scoppia un’amicizia (si scambieranno consigli e ritratti) che non tarda a diventare fonte di pettegolezzi.
In effetti Kauffmann è una mina vagante, seppure in una società piuttosto libera come quella dell’aristocrazia e dell’alta borghesia del XVIII secolo: viaggia per lo più da sola, è bella, svolge una professione inconsueta per una donna, è libera e autonoma. E poi è così brava da far tremare più di un collega. E l’invidia è una brutta bestia. Ecco allora che arriva Nathaniel Hone, pittore oggi giustamente scomparso dai radar, che nel suo La Congiura, del 1775, mette sullo sfondo la caricatura di una Kaufmann seminuda accanto a un Reynolds altrettanto nudo che brandisce un cornetto acustico (l’artista era sordo) dalla forma quanto mai allusiva. Ma lei non ci sta: denuncia la cosa e costringe Hone a modificare il dipinto.
C’è da domandarsi, però, se non sia stato peggio quello che ha fatto qualche anno prima, nel 1771, Johan Zoffany, quando ritraendo i membri della Royal Academy recentemente fondata ha deciso di creare un gruppo di uomini che interagivano tra busti di gesso, bassorilievi e modelli seminudi, relegando Kauffmann e Moser, le uniche due fondatrici donne, a due ritratti appesi alla parete.
Ma Angelica fa spallucce: si è già dimenticata l’incauto matrimonio con il sedicente conte svedese Frederick de Horn, che tre mesi dopo le nozze è scappato con i suoi soldi, e continua a dipingere, prendendosi la soddisfazione di raccontare storie di donne che fanno scelte libere e audaci, come quella di prendere in mano i pennelli nello studio di un artista anche se si è entrate lì solo per esercitare un ruolo passivo, come nel dipinto del 1775 che ritrae Zeusi tra le sue modelle.
Poi, a quarant’anni, Kauffmann fa una scelta di tranquillità: sposa il collega Antonio Zucchi che ha una quindicina di anni più di lei, molto talento in meno, e che le farà da manager, e poi torna a Roma. Facendo però una tappa a Napoli, giusto in tempo per entrare nelle grazie di Maria Carolina d’Austria, moglie di Ferdinando IV, farsi supplicare da lei (inutilmente) di diventare la sua artista di corte e ritrarne la famiglia in un lavoro spettacolare del 1783.
Ci sarà solo una parentesi in cui Kauffmann sembrerà perdere il pieno controllo che ha sempre esercitato sulla propria vita. Un breve vacillare della tranquillità raggiunta con il matrimonio. E sarà rappresentata dall’arrivo a Roma di Johann Wolfgang Goethe.
Lo scrittore ha sentito parlare di lei, del suo salotto considerato uno dei più raffinati e colti della città, e vi arriva nel 1786. La donna lo affascina con i suoi modi eleganti, con le sue spiegazioni quando insieme girano per rovine e per musei. Goethe spenderà parole di elogio per lei (come persona: sulla sua pittura non sarà altrettanto generoso), ma quello che si scatena nella pittrice è ben altro. Una passione cocente, alimentata dalle letture degli scritti di lui e dalle loro conversazioni, ma destinata a scontrarsi contro il baluardo di una fredda amicizia e a consumarsi poi in lettere struggenti che seguiranno a lungo l’uomo dopo il suo ritorno in patria.
Kauffmann scriverà sul suo diario: “Il suo commiato mi ha trafitto l’anima. Il giorno della sua partenza è stato tra i più tristi della mia vita”.