Continua la nostra indagine sugli artisti invitati alla Biennale Arte di Venezia. Un totale di 332 artisti, provenienti da tutti i paesi del mondo e di tutte le generazioni. Le prime undici puntate sono state pubblicate qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 1), qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 2), qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 3) qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 4) e qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 5) e qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 6) e qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 7) qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 8), qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 9) e qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 10) e qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt.11) e qua (Speciale Artisti Biennale pt. 12) e qua ( Speciale Artisti Biennale pt. 13). Di seguito, ecco la quattordicesima puntata. Per raccontarvi ogni artista in poche righe, con un’opera rappresentativa della sua ricerca.
Bahman Mohasses (Rasht, Iran, 1931– Roma 2010)
Bahman Mohasses proveniva da una numerosa famiglia di possidenti terrieri e commercianti di tè e seta. All’età di 14 anni, iniziò a interessarsi alla pittura e fece un apprendistato con Seyyed Mohammed Habib Mohammedi, che si era formato presso l’Accademia di Belle Arti di Mosca. Mohasses in breve tempo colse l’attenzione del pubblico per le sue opere eclettiche, spaziando tra dipinti, sculture e collage, e per la sua tendenza a distruggere molte delle proprie creazioni. Il suo stile pittorico, privo di riferimenti all’arte persiana tradizionale, integra elementi mitologici e figure surreali.
Le sue opere riflettono una visione critica e provocatoria della società e della condizione umana. Anche nella scultura, Mohasses affrontava temi simili, evocando immaginari onirici e suggestivi. Inoltre, realizza collage utilizzando ritagli di giornali e tessuti, continuando il suo studio del mondo usando diverse forme artistiche.
Roberto Montenegro. Guadalajara, (Messico, 1885, Città del Messico, 1968)
Roberto Montenegro, pittore, illustratore, tipografo e scenografo, è uno dei fondatori del movimento del Muralismo messicano. Quando scoppia la Prima guerra mondiale, Montenegro è in viaggio in Europa e decide di stabilirsi a Maiorca per sei anni. Durante questo periodo, si dedica a dipingere scene ispirate ai costumi locali, tra cui una delle attività principali dell’isola: la pesca. Nel 1915, crea “Pescador de Mallorca”, un dipinto che ritrae un robusto pescatore di spalle, con la pelle abbronzata e i muscoli in evidenza.
Il pescatore guarda verso lo spettatore, mentre il braccio destro regge un grande vassoio di pesce fresco. Tra il pescatore e il paesaggio costiero sullo sfondo, si intravedono rami spogli e argentei e rigogliosi fichi d’India, con scogli che interrompono il blu del mare. Lontano dagli orrori della guerra, il soggetto del quadro, con il suo stile decorativo e la sontuosa gamma cromatica, preannuncia il ruolo centrale che la fantasia e la tradizione avranno nelle opere future dell’artista.
Camilo Mori Serrano. Valparaíso, Chile, 1896—1973, Santiago, Chile
Camilo Mori, pittore, cartellonista e scenografo teatrale, è stato uno degli artisti d’avanguardia più prolifici e poliedrici del Cile. Nel 1928, crea “La viajera”, un ritratto della moglie, la pittrice Maruja Vargas Rosas. Sebbene l’opera di Maruja sia poco conosciuta, le viene attribuito più il ruolo di musa che di artista autonoma. Questo dipinto rappresenta uno dei primi esperimenti di Mori rivolto alle tendenze europee, in particolare quelle ispirate a Paul Cézanne. Realizzato a Valparaíso, “La viajera” raffigura una passeggera di un treno nel periodo di massimo splendore del trasporto ferroviario in Cile.
In questo contesto, il treno diventa un simbolo di emancipazione per le donne, permettendo loro di muoversi liberamente durante la lotta per il diritto di voto. La protagonista del dipinto tiene in mano un libro, simbolo dell’accesso delle donne alla sfera culturale. Camilo Mori, membro del Partito Comunista e direttore del Museo Nazionale di Belle Arti, ha ricevuto il Premio Nazionale d’Arte nel 1950, consolidando il suo ruolo emblematico nella storia dell’arte cilena. “La viajera” è la sua opera più celebre e viene ampiamente riprodotta su francobolli, libri scolastici e calendari. L’opera di Camilo Mori è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.
Ahmed Morsi. (1930 Alessandria, Egitto, vive a New York, in America)
Ahmed Morsi è uno scrittore, scenografo e artista visivo che ha dedicato gran parte della sua carriera alla pittura e alla sua relazione con la figurazione. Il suo autoritratto del 1970 esemplifica la sua ricerca artistica: l’immagine gioca con la pittura, il corpo umano e la rappresentazione. La figura ritratta tiene una cornice, creando un rimando metalinguistico che caratterizza il percorso di Morsi come artista visivo.
In questo “quadro nel quadro”, l’artista esplora l’idea di astrazione, dialogando con molti artisti interessati a questo concetto, e accosta un cerchio e aree di colore sul proprio corpo. Questo autoritratto mostra Morsi non solo come pittore, ma anche come commentatore della storia dell’arte della sua generazione.
Effat Naghi ( Alessandria, Egitto, 1905–1994)
Effat Naghi, nata in una ricca famiglia di proprietari terrieri di Alessandria d’Egitto, fu introdotta al disegno, alla pittura e alla musica fin da bambina. Alla fine degli anni Cinquanta, la sua opera subisce una significativa evoluzione stilistica, alimentata dall’interesse per la storia egiziana e le culture popolari, e inizia a riempirsi di colori vivaci e figure stilizzate. In certe sue opere, come il ritratto di donna esposto in Biennale quest’anno, si nota un approccio più classico: l’andamento del dipinto è verticale, tonalità ocra e marroni, una sofisticata acconciatura della modella, una tunica bianca e linee nere che accentuano i grandi occhi e le sopracciglia, richiamando i ritratti del Fayyum che adornavano le mummie dell’alta società nell’Egitto romano.
L’uso del truciolato – un materiale con particelle visibili che spesso fungeva da base per i suoi dipinti – insieme all’aggiunta di riflessi verdi, blu e rosa sul viso e sui capelli della modella, dà vita a un’interpretazione moderna di questa antica tradizione pittorica su tavola. Lo sfondo è animato da linee in inchiostro nero che tracciano simboli e scritte, evocando le parole magiche talvolta incorporate nei lavori dell’artista. Effat Naghi ha rappresentato l’Egitto alla Biennale Arte del 1950, 1952 e 1956, consolidando la sua importanza nella scena artistica internazionale.
Ismael Nery (Belem, Brasile, 1900 Rio de Janeiro, Brasile, 1934)
Ismael Nery, pittore, disegnatore e poeta brasiliano, è stato una figura di spicco nell’arte d’avanguardia del XX secolo. Ha studiato presso la Escola Nacional de Belas Artes di Rio de Janeiro e, durante gli anni Venti, ha effettuato due viaggi in Europa, dove è stato profondamente influenzato dai movimenti artistici innovativi dell’epoca. La produzione artistica di Nery è sempre stata guidata da una profonda riflessione sul senso della vita. I suoi lavori esplorano temi come l’io, l’altro e la loro comunicazione, i riflessi e le ombre, e la ricerca dell’interezza.
Questi concetti si manifestano in modo particolarmente evidente nel dipinto “Figura decomposta” (1927). In quest’opera, due corpi stilizzati – torsi maschili e femminili – sono parzialmente giustapposti e rivolti in avanti. Seguendo la propria teoria dell’Essenzialismo, Nery illustra in “Figura decomposta” la divisione dell’unità primordiale delle polarità femminile e maschile, che idealmente costituiscono ogni individuo. La semplificazione delle forme, la geometria, la frammentazione delle figure in piani e la tavolozza monocromatica sono tutti elementi del lessico cubista che Nery ha assorbito durante il suo primo viaggio a Parigi negli anni Venti.
Malangatana Valente Ngwenya (Matalana, Mozzambico, 1936, Matosinhos, Portogallo 2011)
Malangatana Valente Ngwenya – pittore, poeta, musicista, intellettuale e rivoluzionario – ha dato voce, con la sua arte, alle lotte dei popoli del Mozambico e dell’Africa. Le sue opere parlano di oppressione, resistenza e identità culturale, spesso riflettendo le esperienze vissute sotto il dominio coloniale e le lotte per l’indipendenza. Una delle sue opere più potenti, “To the Clandestine Maternity Home” (1961), è una densa composizione pittorica che denuncia l’oppressione femminile sotto il dominio coloniale, il controllo del corpo e della riproduzione femminili, nonché l’esistenza di reparti di maternità clandestini e di reti per l’aborto.
La tela è affollata di corpi sovrapposti e intrecciati, dominata dai volti tormentati di donne di diverse estrazioni sociali. I loro sguardi penetranti, rivolti verso lo spettatore o di lato, segnalano la consapevolezza della loro triste condizione. Una delle figure centrali è una madre emaciata con il feto in grembo, cullato da lei stessa. A differenza di questa donna malnutrita, ledonne bianche sono rappresentate come corpulente ed in salute, evidenziando il contrasto tra le diverse condizioni sociali. A destra, una domestica con i capelli legati allatta un bambino nato da un’unione interrazziale (o da uno stupro), mentre osserva in silenzio le altre donne. Le opere di Malangatana sono caratterizzate da una forte carica emotiva e da un marcato impegno politico.
Paula Nicho (Comalapa, Guatemala, 1955, Vive a Comalapa)
Paula Nicho, pittrice maya residente a Comalapa, in Guatemala, con la sua arte studia le connessioni tra il mondo naturale e quello spirituale. Nelle sue opere, il simbolismo onirico gioca un ruolo centrale, dando largo credito alle tradizioni e alle credenze maya. Le opere di Nicho esposte per la prima volta alla Biennale Arte raffigurano donne consapevoli del proprio potere, evocando le antiche dee maya della guarigione, della fertilità e della tessitura. Queste figure appaiono nude, ma ricoperte da forme e vivaci motivi geometrici indigeni.
Queste immagini derivano dai ricordi d’infanzia dell’artista quando a scuola le era proibito indossare abiti tipicamente indigeni. E’ chiara la volontà di denunciare le scelleratezze del colonialismo e l’intento di far rivivere e scoprire i segreti dell’antica arte tessile del suo paese. Questo è particolarmente evidente nell’huipil, un indumento tradizionale tessuto a mano.. Le sue opere celebrano la ricchezza culturale e la resilienza del popolo maya, offrendo una visione potente e rivendicativa dell’identità indigena.
Costantino Nivola (Orani, 1911, East Hampton, USA, 1988)
Costantino Nivola, fuggito dall’Italia nel 1937, si trasferì negli Stati Uniti, dove visse fino alla sua morte. La sua carriera negli Stati Uniti raggiunse un punto di svolta nel 1954 con l’apertura dello showroom Olivetti sulla Fifth Avenue a New York. Questo evento segnò l’affermazione dello “stile italiano” negli Stati Uniti e il riconoscimento di Nivola come scultore di talento. Il monumentale bassorilievo che domina lo showroom fu realizzato con una tecnica innovativa di sand casting, che Nivola sviluppò mentre giocava con i suoi figli sulle spiagge di Long Island. L’opera trae ispirazione dalle figurine preistoriche sarde, dalle maschere tradizionali del carnevale isolano e dall’interpretazione della New York School delle culture totemiche dei nativi americani.
Integrandosi perfettamente con gli elementi architettonici progettati dallo studio milanese BBPR, il bassorilievo emana un’aura mediterranea senza tempo. Ora situato al Science Center dell’Università di Harvard, l’opera continua a stupire per la sua imponenza e per la sua qualità artistica. Nivola espose anche il modello del bassorilievo come opera d’arte autonoma. L’opera di Nivola rappresenta una fusione di influenze culturali e artistiche, riflettendo sia le sue radici sarde che la sua esperienza sulla scena artistica di New York. Il suo contributo all’arte e all’architettura rimane un esempio significativo di integrazione culturale e innovazione tecnica.
Taylor Nkomo. (Bulawayo, Zimbabwe, 1957, vive ad Harare, Zimbabwe)
Taylor Nkomo, artista ndebele diplomato al Mzilikazi Arts and Crafts Centre di Bulawayo, è considerato un’icona nel campo della scultura in pietra dello Zimbabwe. Le sue opere sono spesso esposte all’aperto, nel giardino del suo studio, creando una connessione profonda tra l’artista, le sue creazioni e la comunità circostante. La scultura “The Thinker” (2023) instaura un dialogo tra spazi positivi e negativi, evidenziando la prominenza di un occhio in contrasto con l’assenza dell’altro, accentuando così le opposizioni.
Quest’opera riflette sulla dualità e sull’equilibrio, temi centrali nella filosofia artistica di Nkomo. Anche “Fashion Girl” (2023) esplora forme contrastanti: un lato del volto presenta delle imperfezioni, mentre l’altro mette in risalto un’acconciatura elaborata, suggerendo una fusione tra le figure maschile e femminile. Le opere di Nkomo rendono omaggio alle diverse tradizioni scultoree del continente africano sebbene il suo stile caratteristico e distintivo emerga sempre. Le sue sculture sono un tributo alla ricchezza culturale dell’Africa.
Marina Núñez del Prado (La Paz, Bolivia, 1910, Lima, Peru, 1995)
Marina Núñez del Prado, una delle scultrici più celebri dell’America del Sud del XX secolo, durante la sua carriera ha toccato stili indigenisti e astratti, utilizzando diversi medium artistici. Tra le sue opere spicca “Madona de Ternura” (1946-1951), una scultura in granito screziato che rappresenta un punto di svolta nel suo percorso artistico. Situata tra le sue prime figure indigeniste realizzate in legno e pietra e le successive astrazioni organiche in metallo, questa scultura è una commovente immagine di madre e figlio che simboleggia la tenerezza indigena.
I due corpi sono raffigurati uniti all’interno della pietra; soltanto da una piccola apertura è possibile scorgere i loro volti, a dimostrazione della enorme abilità di Núñez del Prado nel lavorare il granito. La scultura riesce a essere allo stesso tempo monumentale e intima, con una fusione di elementi cattolici e aymara. Il granito utilizzato, non originario né della Bolivia né del Perù, richiama la natura tellurica della mitologia e cosmologia andina. Con la scelta di un soggetto religioso, Núñez del Prado ha voluto unire le tradizioni cattoliche con la cultura indigena. Le opere di Núñez del Prado sono sempre a cavallo tra le antiche tradizioni e l’apertura verso la modernità, tra l’omaggio alla cultura indigena e l’esplorazione di forme astratte e organiche.
Philomé Obin ( Bas-Limbé, Haiti, 1892–1986)
Philomé Obin, insieme al fratello minore Sénèque, è tra i fondatori della scuola di pittura di Cap-Haïtien, ispirata dal comune situato sulla costa settentrionale di Haiti. Con una vasta gamma di temi e complesse composizioni narrative, Obin si distingue per uno stile riconoscibile e autorevole. Si è spesso occupato di problemi sociali e di vicissitudini che riguardano il suo popolo. Queste tematiche si ritrovano nelle sue opere, molto diverse tra loro: in alcune troviamo scene di strada caratterizzate da una vivacità forte, in altre paesaggi urbani tranquilli, che riflettono la calma dei luoghi rappresentati.
Nel “Carnaval” (1958) una folla in costume sfila davanti alla facciata di un centro sanitario, le cui finestre chiuse evocano silenzio e morte. In “Deux déguisés du Carnaval” (1947), una coppia in costume in mezzo alla strada forma un trio con una figura maschile in abito da sera che osserva da una porta vicina. Obin è anche rinomato per i suoi dipinti storici. Una delle sue opere politiche più celebri rappresenta la crocifissione di Charlemagne Péralte, un combattente contro l’occupazione statunitense di Haiti (1915-1934).
Sénèque Obin. Limbé, Haiti, 1893–1977
Sénèque Obin, membro di una famiglia di artisti insieme con il fratello maggiore Philomé, i nipoti Antoine e Telemaque e il figlio Othon, inizia a dipingere all’età di cinquant’anni e si unisce al Centre d’Art di Port-au-Prince nel 1948. La sua carriera come pittore e attivista artistico ci aiuta a comprendere le arti nelle Americhe a metà del XX secolo. Il suo lavoro mette in luce le contraddizioni del processo di modernizzazione, andando contro alle etichette di “autodidatta”, “ingenuo” e “primitivo” spesso applicate agli artisti neri come lui. Grazie ad una vasta gamma di temi, motivi e iconografie, Obin ha rappresentato vari aspetti della cultura haitiana, come i mercati di strada, il carnevale e il sincretismo spirituale, oltre alle dinamiche politiche del Paese.
Un esempio del suo lavoro è “Marché Cluny” (1966), in cui Obin ritorna su un tema centrale: il mercato costruito nel 1890, che diventa il fulcro della vita sociale di Cap-Haïtien. Con linee precise, colori vivaci e molte narrazioni, il dipinto allude al commercio e allo sfruttamento delle risorse naturali, evocate sia dalle merci esposte al mercato sia dal paesaggio montuoso che lo circonda.
Alejandro Obregón. Barcelona, Spain, 1920–1991, Cartagena, Colombia
Alejandro Obregón, nato a Barcellona da padre colombiano, trascorre l’infanzia tra l’Europa e gli Stati Uniti. In “Máscaras” (1952), un personaggio femminile mascherato tiene un vassoio con del cibo e un elmo da conquistatore collegato a una maschera antigas. Questi due oggetti rappresentano simbolicamente la colonizzazione delle Americhe e gli eventi postbellici del XX secolo, che stavano rimodellando la geopolitica globale dell’epoca. Nonostante una chiara attitudine per l’astrazione, l’opera di Obregón rimane sempre figurativa, con frequenti riferimenti alla violenza politica in Colombia.
Tra il 1955 e il 1956 riceve un premio nazionale Guggenheim, e le sue opere vengono incluse nelle collezioni dell’Organization of American States e del Museum of Modern Art di New York. Al culmine del suo riconoscimento internazionale, “Máscaras” viene acquisito dal Museo Nacional de Colombia nel 1956 e collocato nella tromba delle scale che separava la collezione di Belle Arti da quella storica.
Tomie Ohtake. Kyoto, Japan, 1912–2015, São Paulo, Brazil
Tomie Ohtake arriva a San Paolo da Kyoto nel 1936, durante la terza grande ondata di emigrazione giapponese verso il Brasile. L’artista è sempre stato connaturato da una profonda riservatezza e, forse per questo motivo, ha lasciato tutte le sue opere senza un titolo. Il titolo, però, non è necessario per comprendere il suo stile e la sua tecnica. Un’astrazione senza titolo del 1978, per esempio, sancisce il suo allontanamento dallo stile espressionista per orientarsi verso composizioni grafiche e ottiche caratterizzate da contrasti netti.
E’ da questo periodo che Ohtake sperimenta la serigrafia e inizia ad utilizzare ritagli di riviste e altri materiali come studi preparatori per le sue tele che diventano molto ricche sotto un punto di vista cromatico. I colori sono decisi e possono essere paragonati a quelli di suoi colleghi come Claudio Tozzi e Antônio Henrique Amaral, membri della Pop Art e della nuova figurazione. Con questi artisti, ha condiviso una mostra nel 1977 alla Galeria Alberto Bonfiglioli di San Paolo.
Uche Okeke. Nimo, Nigeria, 1933–2016
Uche Okeke è nato nella Nigeria settentrionale da una famiglia igbo. Fondatore della Zaria Art Society insieme a Demas Nwoko e Simon Okeke, ha frequentato il Nigerian College of Arts, Science and Technology. È qui, durante il secondo anno di studi, che ha iniziato a delinearsi il suo stile. A 26 anni, un anno prima della pubblicazione del manifesto Natural Synthesis e dell’indipendenza politica della Nigeria, dipinge un autoritratto di ispirazione postimpressionista. Il dipinto è molto intenso, il colore predominante, l’indaco nigeriano, copre le pareti alle sue spalle e si riflette sul suo costato.
Questo è un chiaro rimando di una tradizione molto antica della cultura igbo. Il volto dell’artista diventa molto intenso grazie ad un sapiente uso delle ombre e dei chiaroscuri. In tutte le sue opere è chiara la sua volontà di rendere omaggio al suo paese natale non senza accostarsi a correnti e stili lontani dal suo mondo, ma anche la sua speranza che la sua terra possa andare incontro ad un periodo di rinascita.
Marco Ospina. Bogotá, Colombia, 1912–1983
Marco Ospina, pittore, scrittore, artista plastico, critico e insegnante, è considerato il primo artista astratto colombiano e una figura chiave nello sviluppo dell’arte moderna in Colombia. La sua opera si ispira molto alla natura ed è caratterizzata da una forte inclinazione verso l’arte astratta. Negli anni ’50, il suo periodo più fruttuoso, Ospina sviluppa uno stile caratterizzato da ondulazioni ritmiche e segni geometrici. Le sue opere di questo periodo si fanno notare per le pennellate piatte che conferiscono solidità alle figure rappresentate.
In questa tecnica non si può non scorgere un chiaro riferimento alla pittura rigorosa di Mondrian. Le opere, infatti, dimostrano un rigido approccio alla composizione e un equilibrio quasi maniacale. Anche l’uso sapiente dei colori primari e secondari genera un impatto visivo molto forte non a discapito della semplicità formale che testimonia quanto abbia amato e compreso l’arte astratta. Le sue composizioni sono spesso costruite su una griglia invisibile all’interno della quale ogni elemento trova un equilibrio sia di forma che di colore.
Samia Osseiran Junblatt. Libano 1944
Samia Osseiran Junblatt si è sempre sentita attratta dall’arte occidentale ma anche dalla filosofia orientale. Queste due parti hanno generato il suo stile semplice ma anche preciso e geometrico. Nelle sue opere riesce a manipolare abilmente la prospettiva e la geometria, dando vita ad un’opera che destabilizza e trasporta in un mondo irreale e criptico. Usa spesso colori terrosi e li arricchisce con un gioco di luci e ombre molto particolare. Intorno al 2018 l’artista riprende in mano vecchi acquerelli degli anni ‘90 e capisce di avere cambiato qualcosa nel suo modo di fare pittura. Siamo infatti in un momento di passaggio concettuale: dalla permanenza all’impermanenza. E’ così che l’artista permette a sé stessa di abbracciare l’incertezza. Le sue esperienze e influenze passate si manifestano nei suoi lavori attuali, ma in chiave totalmente diversa.
In “Sunset” (1968), Junblatt dipinge un cammino lungo e stretto che percorre verticalmente la tela, lasciando spazio al sole che tramonta in un cielo circoscritto. La moltitudine di linee che seguono la tradizionale prospettiva a punto di fuga centrale è interrotta da una singola linea curva, che infrange l’illusione di perfezione. Questa sottile curvatura all’interno di una resa geometrica altrimenti rigida conferisce una sensazione animata al paesaggio astratto, creando un effetto che invita lo spettatore ad andare oltre la superficie.
Daniel Otero Torres. Bogotá, Colombia, 1985, vive a Parigi
Daniel Otero Torres ha sempre spaziato tra installazioni, sculture e disegni. La sua arte è basata sulla volontà di dare voce ad una serie di movimenti di resistenza portati avanti da gruppi di emarginati, soprattutto in Colombia.
Una delle sue opere più recenti, “Aguacero” (2024), è un’installazione site-specific che si sviluppa dal precedente “Lluvia” (2020). Realizzata con materiali raccolti localmente e riciclati, “Aguacero” evoca l’architettura a palafitte della comunità emberà lungo le rive del fiume Atrato. Questo sistema architettonico è progettato per raccogliere l’acqua piovana, fornendo agli abitanti acqua non inquinata. Paradossalmente, nonostante gli Emberà vivano in una delle regioni più piovose, devono affrontare enormi difficoltà per ottenere acqua pulita a causa dell’inquinamento esteso provocato dall’estrazione illegale dell’oro.
Otero Torres, grazie ad un’attenta ricostruzione metaforica, pone l’attenzione del suo pubblico su un problema ancora molto presente nel suo paese, quello della reperibilità dell’acqua potabile che, ogni giorno, crea disagi inimmaginabili alla popolazione.
Lydia Ourahmane, Saïda, Algeria, 1992. vive in Algeria
Lydia Ourahmane mette al centro del proprio lavoro temi come la spiritualità, la geopolitica, la migrazione e il colonialismo. Non si limita ad un solo linguaggio artistico, sviluppando un approccio multidisciplinare che comprende video, suoni, performance, sculture e installazioni su scala monumentale, che spesso vanno oltre i confini dello spazio espositivo. Ourahmane attinge a ricordi sia personali che della collettività che la circonda, spesso andando contro all’ordine costituito. La sua pratica è molto in linea con la tematica generale della Biennale di quest’anno. Riflette infatti sulle problematiche e sui disagi che l’immigrazione possono apportare all’individuo. Le sue installazioni spesso includono oggetti e materiali che si addicono proprio a questo tema come valigie e documenti.
Tra le sue mostre personali più significative si annoverano quelle presso il KW Institute for Contemporary Art, SculptureCenter, Fondation Louis Vuitton, Portikus Frankfurt, De Appel, Kunsthalle Basel, Triangle – Astérides, S.M.A.K., CCA Wattis Institute for Contemporary Arts e Chisenhale Gallery. Il lavoro di Ourahmane è stato anche riconosciuto a livello internazionale, come dimostrato dalla sua partecipazione alla 34° Biennale di San Paolo e al New Museum Triennial. In queste manifestazioni, l’artista ha presentato opere che affrontano le conseguenze del colonialismo e le problematiche legate alla migrazione, mettendo in luce le storie spesso trascurate delle persone che vivono ai margini della società.
(Schede a cura di Sofia Marzorati)