Elena Ovecina (Rostov-na-Donu, 1996) è una fotografa russa naturalizzata italiana, vive e lavora a Milano e la sua ricerca si focalizza sull’identità e la fluidità di genere. Attraverso un linguaggio visivo delicato e minimalista affronta la complessità della questione identitaria, scomponendo le convenzioni tradizionali. Anche nella sua ultima mostra personale in corso presso la sede Playlist della Galleria Giampaolo Abbondio di via Carlo Poma 18, a Milano (Special Dreams, a cura di Giuditta Elettra Lavinia “GEL” Nidiaci, inaugurazione giovedì 19 settembre dalle ore 18 alle ore 21, aperta fino al 16 Novembre 2024), la fotografa sfida ancora una volta le rigide categorizzazioni del maschile e femminile: i suoi soggetti si presentano in pose o contesti che non si conformano alle aspettative convenzionali di genere, proponendo una narrazione visiva che prende le mosse a partire da una tensione tra ciò che si è e ciò che si appare. Attraverso una serie di scatti, alcuni inediti ed altri già noti, accomunati dal tema del sonno, il suo sguardo si posa su figure efebiche restituendoci un’immagine che sembra raccontarci delle loro inquietudini in una realtà sgretolata.
I soggetti giacciono languidi e contemporaneamente ingenui, coricati su superfici rigorosamente soffici sulle quali sembrano disciogliersi, mal celando silenziosi il desiderio d’obliare se stessi ritirandosi in uno stato di amalgama organica. Una luce glaciale illumina i toni tenui dell’incarnato, che ricalcano le sfumature pastello, ora d’una coperta, ora d’una parete, e delinea delicatamente i soggetti come sospesi su sfondi monocromatici, quasi privi di ombre e profondità, senza mai coglierli per intero. Nel testo critico posto a corredo dell’opera, la curatrice GEL Nidiaci scrive: “Negli scatti di Elena Ovecina non c’è propulsione né impulso, né pulsioni: i corpi, gli sguardi, perfino gli arredi, abitano una realtà scadente che è un’ amalgama a cui placidamente adattarsi, finanche rassegnarsi, un ossimorico scorrere immobile”.
Così, ridotti a corpi manchevoli, frammentati, come parti anonime di un olocene in cui si trovano gettati privati di funzione, i personaggi si abbandonano cedevoli a un torpore torbido: non trovando soluzione al disincanto del reale si ritirano nel sonno. Di fronte all’impossibilità di fare esperienza del vero, il loro è un placido tentativo di riservarsene, isolato, un ritaglio, una piega nascosta tra i grandi monti del difficile il cui grigiore colora il panorama contemporaneo. È l’ultima maniera di rimanere attaccati alla vita: immaginarla.
Scrive ancora la curatrice: “L’individuo si ritira in un bozzolo, adottando posture rivelatrici di un bisogno di protezione, come la posizione fetale, o si mostra catatonico. È un periodo di stasi, di apparente immobilità emotiva e fisica: il soggetto si trova in uno stato di apatia profonda, un limbo in cui il mondo esterno sembra aver perso ogni capacità di evocare risposte. L’immagine che ne scaturisce è quella di un congelamento delle funzioni quotidiane”.
Quella che può apparire allo spettatore come una quiete estetizzante tradisce una malinconia profonda, i suoi figuranti sperimentano un sonno consapevole e doloroso, dietro i loro sguardi fissi riecheggiano interminabili le voci del passato e del possibile mentre il presente tace. Ovecina li descrive come “creature mute e nostalgiche che riescono a mimare i propri pensieri. Sono persi nei loro ricordi”, offrendoci un ritratto vivido dell’ immobilismo contemporaneo: una galleria dell’umano attonito che inerme si ripiega su se stesso, attendendo che il tempo scorra mentre lui riposa fragile.