Iddu, ovvero come dissacrare le icone del male. Recensione del film

Dopo anni trascorsi nell’ombra di una cella, Catello Palumbo (Toni Servillo), ex politico di lungo corso, ha perduto ogni cosa. Ma quando i Servizi Segreti italiani gli propongono un patto – collaborare per catturare il figlioccio Matteo Messina Denaro (Elio Germano), l’ultimo gran capo mafioso ancora latitante – Catello intuisce l’occasione di riscattare la sua caduta. Maestro dell’inganno e della parola, capace di modellare la verità come creta fra le mani, si imbarca in un dialogo epistolare tanto audace quanto letale con il giovane boss, cercando di sfruttare il vuoto emotivo che lo assedia nella sua latitanza.

Diretto dai siciliani Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, cineasti tra i più innovatori del nostro tempo, Iddu si addentra in una Sicilia arcaica e moderna, ambientata nei primi anni 2000, quando Messina Denaro era indicato da Forbes come il terzo criminale più ricercato al mondo. Una vita segnata da crimini efferati, omicidi e attentati che compromisero l’Italia, specialmente tra il 1992 e il 1993.

Nel rifugio clandestino, dove si muove come un fantasma tra memorie e mancanze, Matteo – soprannominato Iddu – trova rifugio nella scrittura, sostenuto dall’enigmatica e raffinata segretaria Lucia (Barbora Bobulova). Con i suoi famigerati “pizzini”, continua a tessere la tela del potere, mentre gli investigatori gli stanno alle calcagna, mappando la rete di protezioni che lo avvolge. La cattura pare imminente, ma nel 2006 tutto si complica: un traditore dall’interno svela alla stampa il coinvolgimento di Palumbo, costringendo Messina Denaro a un’ennesima fuga, un inseguimento che si concluderà solo nel 2023, con il suo arresto in una clinica di Palermo.

La sceneggiatura di Iddu prende spunto da questi fatti, trasformando lo scambio epistolare tra il boss e il suo antico mentore in un duello psicologico di rara intensità. Il carteggio svela un mondo in cui la tragedia e l’assurdo si mescolano, dove il passato torna a bussare attraverso flashback che esplorano la formazione emotiva e familiare di Matteo. Il racconto, man mano che procede, si incupisce, ma mantiene sempre un filo ironico, una sorta di risata amara, capace di far luce su una realtà grottesca e claustrofobica, dove gli orrori si ripetono come in un ciclo inesorabile.

Iddu danza tra la tragedia e la farsa, bilanciando il dramma con momenti di pungente umorismo. Da una parte, Catello, figura teatrale, ilare, eppure pericolosamente spregiudicato; dall’altra, Matteo, narcisista gelido, camaleontico, che vive del mito della propria inafferrabilità. I due protagonisti si scontrano, si osservano a distanza, legati da queste lettere che fungono da filo invisibile tra i loro mondi lontanissimi.

L’opera non si limita a dissacrare il mito del mafioso, ma scava nella differenza abissale che separa Messina Denaro dai suoi predecessori, incluso suo padre. Il film gioca con i codici del genere crime, per trasgredirli e rinnovarli, introducendo elementi grotteschi, assurdi, quasi ridicoli. Il dramma si colora di paradosso, e ciò che dovrebbe restare oscuro viene illuminato da un’ironia tagliente, che ridicolizza i miti del potere criminale. E proprio in questo contrasto, tra le ombre e la luce accecante che si alternano sulla scena, risiede la genialità visiva e narrativa del film. Il cinema, in fondo, è anche questo: un’arte capace di estremizzare per liberare. Dissacrare le icone del male, smontare la solennità che grava su figure che hanno fatto della violenza il loro impero. Ridere dell’ineluttabile, ridicolizzare il sacro.

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