Una giornata al PhEST di Monopoli (pt 1)

Festeggia un mese e mezzo, e nove edizioni, il PhEST – See Beyond the Sea, inaugurato il 30 agosto a Monopoli. Per celebrare questo anniversario, ho deciso di farci un giro. Il tema scelto per quest’anno è il sogno, ispirato al manifesto surrealista firmato da André Breton nel 1924. “Le strade sono piene di artigiani ammirevoli, ma di pochi sognatori pratici’ diceva Man Ray (in mostra al Castello Carlo V ndr.) ma noi quest’anno di sognatori pratici da tutto il mondo riempiremo le strade di Monopoli”, erano state le parole di Giovanni Troilo, direttore artistico, nell’annunciare l’edizione. The dream è stato pensato, contemplato, analizzato, delineato e reso in forme, colori, sensazioni e immagini differenti e varie. Si è dato spazio, non solo, all’idea di “sogno” inteso come speranza, illusione, desiderio, chimera, ma anche allucinazione, incubo, delirio.

Il festival internazionale di fotografia e arte, di cui si è scritto molto bene in questo articolo, rimarrà aperto al pubblico fino al 3 novembre, visitabile dal martedì alla domenica, dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 21 (sabato e domenica fino alle 22). Parte da un assioma che mi piace ricordare: in Il pensiero meridiano, libro del 1996, il sociologo e professore all’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” Franco Cassano scriveva così: “Noi siamo una grande penisola gettata nel Mediterraneo e certe volte ce ne dimentichiamo”.

Monopoli, al contrario di “noi”, non è una grande penisola, ma un comune di medie dimensioni che fa parte della provincia del capoluogo pugliese e non supera i 50.000 abitanti (neanche i 48.000), circondato da alte mura e dal blu. Non sembra sia stato “gettato nel mare”, al massimo ci è stato trascinato dentro, tanto da far diventare il mare il suo elemento più caratteristico.

Uscendo dalla stazione, anche senza navigatore, dopo aver attraversato molte strade, qualche piazza ed essersi addentrati nel centro storico della città, è sicuro che lo sguardo cadrà su quella grande distesa azzurra, a pochi passi dal porto e dal castello. La mia visita è cominciata qui.

<em>All Humans Be Cats<em>

È stato il porto vecchio, infatti, la prima cosa che ho visto. La seconda, una piccola barca con una scritta blu, su fondo chiaro: “Fatti più là”. Ho seguito il consiglio. Quando mi sono fatta più là, accanto a me c’erano enormi stampe fotografiche. Era il progetto All Humans Be Cats, curato dal tedesco Jan von Holleben.

Nelle foto, i sogni di oltre 800 bambini e bambine che frequentano la scuola primaria in quattro istituti comprensivi della città, rappresentati in fotografia come fossero in un grande teatro, in cui il futuro è un coloratissimo e imprevedibile scenario di gioco. È così che appaiono piccoli supereroi ed eroine, musicisti e cantanti, insegnanti e giocolieri, smaglianti sorrisi, occhi pieni di speranza e risposte ancora da realizzare, davanti alla domanda che gli era stata rivolta: “E tu, cosa vuoi fare da grande?”

Peter Menzel

Accanto a queste immagini, camminando ancora a lato del porto vecchio, sono esposte le fotografie di Peter Menzel, Material world: a global family portrait, un progetto in cui ogni famiglia, proveniente da varie parti del mondo, dal Giappone, al Mali, al Sudafrica, fino al Canada, è rappresentata accanto alla sua casa, con intorno tutti i propri oggetti. Non sembra mancare nulla: armadi, letti, comodini, scarpe ben in fila, bambole, peluche, tavoli, libri, pellicce per proteggersi dal freddo e ventilatori per tentare di alleviare il troppo caldo. Tutte le famiglie sembrano possedere il necessario, e anche di più, così accatastato in un solo luogo, all’interno della stessa fotografia, eppure la domanda inquieta: «Possiamo tutti avere tutto ciò che vogliamo, e sarebbe giusto?»

Il quesito rimane insoluto e si somma alle riflessioni che Pamcoc ha distribuito sul lungomare Santa Maria, in un’opera che Non è una passeggiata, ma ha tutta l’aria di esserlo, in cui l’artista affida alle parole e a pochi tratti di colore, la sua filosofia, tra pensieri profondi e riferimenti più leggeri. Si passa così a guardare il cielo come una linea azzurra e storta, tipica dei disegni d’infanzia, a un “ho finito le parole o forse ce ne sono troppe”.

Visitando quest’anno il PhEST, mi sono ritrovata più volte a pensare che non ci fossero parole per quello che stavo guardando e che, probabilmente per questo, la fotografia è l’unico mezzo capace di arrivare lì dove la comunicazione si interrompe e di portarci altrove. L’ho pensato quando sono entrata a Casa Santa, e mi sono trovata davanti ad un passato ingombrante di cui ci si sarebbe dovuti occupare, e preoccupare, molto prima del 7 ottobre 2023.

A Photographic Memory of Palestine Before the Nakba, dal libro Against Erasure, è una raccolta di immagini della Palestina tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, testimonianza rara di una società formata da persone che sognano, ragazze che fanno sport, famiglie unite, prima della creazione dello Stato di Israele (1948), della Nakba, “catastrofe” per i palestinesi. L’esposizione continua su tutte le pareti del quadrato della struttura, entrando poi all’interno, dove Adam Rouhana, in Before Freedom, ha scattato Gerusalemme, la quotidianità, le famiglie al parco, i bambini che si divertono, lo scorrere normale dei giorni quando a vivere non si fa fatica. Nel patio interno, Landing di Maen Hammad, offre una via di fuga dagli orrori, incarnata per molti ragazzi e ragazze palestinesi dallo skateboarding, una forma di resistenza e lotta silenziosa, soprattutto contro i propri demoni.

Antonio Faccilongo

È sull’ultima delle pareti che si concentra il lavoro di Antonio Faccilongo, Habibi, in arabo “amore mio”, un progetto che espone una difficoltà che accomuna molte coppie di giovani sposi palestinesi: la distanza. Sono circa 7.000 i palestinesi detenuti, a cui le visite coniugali sono negate o ridotte al minimo e durante le quali il contatto fisico è vietato. Nonostante questo, continuano a nascere bambini, figli di mogli che aspettano mariti, considerati martiri, e che forse non torneranno più a casa, e di mariti che, nonostante siano in prigione, hanno trovato la maniera di portare avanti la propria stirpe. Antonio Faccilongo, attraverso un racconto fotografico crudo e intenso, spiega come.

La tappa successiva del mio percorso è stato Palazzo Palmieri, in Largo Palmieri, ottavo punto della mappa.

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