Montesano, la Storia siamo noi. Tutto il Novecento in pittura

La pittura è morta, viva la pittura! Parafrasando la celebre frase pronunciata in memoriam ad ogni morte di Re (non diverso in fondo dal motto popolare “morto un Papa se ne fa un altro”), anche per la pittura, guardando alla lunga e prolificissima carriera artistica di Gian Marco Montesano (di cui oggi la galleria Claudio Poleschi ha inaugurato una bella e ampia antologica, “Mon histoire à moi”, aperta nella sua sede di San Marino fino al 31 gennaio 2025), si potrebbe cantare le lodi, e le magnifiche sorti e progressive, per celebrarne contemporaneamente la morte. Sì, perché, come lo stesso artista diceva qualche anno fa a Fabio Cavallucci, “la pittura storicamente intesa, la pittura umanistica non solo non ha più nulla da dire, ma è morta. E il morto, come si sa, non parla. Però si lascia esaminare, si lascia sottoporre ad autopsia”. Aggiungendo, a mo’ di spiegazione e riflessione: “la pittura non è morta per una questione di moda, o di gusto, ma perché le è stato tolto il terreno sotto i piedi: è venuto meno tutto quel mondo, tutto il sistema di valori che la esprimeva, che la giustificava… il mondo umanistico, cioè il mondo dei grandi postulati, dei grandi progetti, dell’utopia, che genera le avanguardie – sia politiche che artistiche – della posizione critica, estetica, politica, sociale. Nel mondo, nella società contemporanea, di questi riferimenti non vi è più traccia, tutto è cambiato”.

Gian Marco Montesano Ballando Ballando 2009 olio su tela cm 130×160 Courtesy Galleria Claudio Poleschi

Benchè viva, anzi, vivissima e quantomai variegata, se si guarda alle grandi manifestazioni internazionali, alle fiere, al mercato diffuso del grande e piccolo collezionismo, essa è difatti “morta” in quanto linguaggio simbolico, autosufficiente e autoreferenziale, dovendo essa non solo confrontarsi sistematicamente con gli altri media, sempre più invasivi e pervasivi, ma subendo anche la progressiva e ormai definitiva perdita di aura, di senso, di immagine-simbolo di un mondo che, appunto, non ha più ragione di esistere, essendo morto l’orgoglio antropocentrico che da cui era nato.

E non è un caso che, con la “morte della pittura” sia in realtà finito anche (le due morti essendo strettamente correlate) il senso stesso della linearità della Storia, quella con la “s” maiuscola: finita la storia (come teorizzato da Francis Fukuyama nel suo celebre pamphlet scritto alla vigilia della caduta del comunismo) in quanto interpretazione di un processo lineare, ascendente e tendente a un continuo e ipotetico progresso futuro, utopisticamente “migliore” dei secoli che l’hanno preceduto, anche la sua rappresentazione diventa sempre più difficile, complessa, frammentaria: come raccontare il Novecento, oggi, quando i germi velenosi che hanno provocato l’incedere delle dittature in Europa appaiono profilarsi ancora e ancora all’orizzonte, ossessivamente e reiteratamente, come una maledizione che non vuole e non può finire? Come raccontare il progresso delle scienze e delle tecniche, quando la tecnologia sta già spazzando via tutto l’armamentario, ideologico e filosofico, che ha costituito le basi del nostro “vecchio mondo”, umanistico e antropocentrico? Come approcciarsi a una storia appena trascorsa, che in ogni anfratto della nostra vita appare in realtà sempre così vicina e allo stesso tempo così lontana – tra tentazioni e derive autoritarie dilaganti ovunque, dall’Europa agli Stati Uniti, una forbice sociale che si allarga ovunque in maniera esponenziale, l’inasprirsi di conflitti e guerre sparse in ogni angolo del mondo, ondate sempre più massicce di migrazioni con i conseguenti strascichi di tensioni, ingiustizie, guerre fra poveri ed egoismi nazionalistici e una povertà diffusa che, malgrado e forse anche grazie all’incedere vorticoso della digitalizzazione, si sta diffondendo per il globo come la condizione “naturale” di una parte consistente degli abitanti del pianeta?

Gian Marco Montesano

Gian Marco Montesano lo fa, con uno stile inconfondibile e riconoscibilissimo, da qualche decennio: da quando, giovane studente d’arte appassionato alla filosofia e alle teorie dell’arte (e al significato stesso di essere artista oggi), ha cominciato ad avvicinarsi alla pittura cercando di ritrovare, dopo decenni di lavoro sui linguaggi, il senso stesso del dipingere non solo dopo decenni di avanguardie, ma dopo la progressiva caduta di ogni ideologia che “spiegasse” e “teorizzasse” il mondo, di ogni filosofia che potesse ragionare su una realtà sempre più sfuggente nei suoi parametri di base (il reale stesso essendosi sempre più mescolato col virtuale, e il virtuale essendo entrato di prepotenza nella realtà “materiale”). Montesano ha provato, dunque, non tanto a raccontare, ma a re-inventare le immagini del mondo così come le conosciamo: a tradurre cioè in linguaggio simbolico – e quello della pittura, benché “morto” come linguaggio in grado di incidere sul presente, rimane vivo nelle nostre coscienze come il più antico e il più ancestrale dei linguaggi simbolici – a ripercorre la storia: la nostra storia, recente e passata, ma mai così passata del tutto (“il passato sul quale si incentra il mio lavoro molto semplicemente è un passato che non è passato affatto”, diceva l’artista in un’intervista: “il XX secolo agisce dentro al XXI secolo”).

Gian Marco Montesano Historikerstreit Tramonto 2000 olio su tela cm 120×150 Courtesy Galleria Claudio Poleschi

Una storia che è incentrata soprattutto intorno ai nodi indissolubili della crisi delle democrazie europee, e di quella tedesca in particolare, con l’incedere dei frutti avvelenati delle teorie filosofiche sulla “forza spirituale” della nazione germanica sulle altre, il progressivo elevare “razze” e popoli sugli altri, il procedere della Storia verso un baratro di megalomanie incrociate, di aggressività, di presunte superiorità arcaiche e originarie basate sulla terra, sull’identità, sulla lingua, sulla forza spirituale di un popolo su un altro, e sulla costruzione di facili “capri espiatori” da annientare e da tenere fuori dal cammino della civiltà per tendere a un futuro scevro dai “germi” delle complessità e delle differenti e divergenti storie culturali dei singoli popoli. Ma anche con l’incedere delle grandi figure di “condottieri” moderni (gli Stalin, i Lenin…) che hanno basato la loro leadership sul culto del popolo e del proprio ruolo di leader in grado di portare il mondo verso un futuro utopistico di giustizia, di felicità e di benessere. Ma non solo loro, e non solo quelli: ci sono infatti anche, mescolate le une alle altre come in un grande frullatore iconografico, le immagini delle dive e dei divi di Hollywood, quelle degli anni d’oro della “commedia all’italiana” degli anni Sessanta, quelle di soldati e di crocerossine, di fiori, madonne, montagne, uomini e donne spensierate che attraversano le calde estate italiane del boom economico, e ancora guerre, danze e folies bergère, autoscatti di epoche passate prima che esistessero i selfie. C’è persino Berlusconi, anche lui ricacciato nell’alveo del passato e della Storia, quasi che la sua parabola, che pure anticipò la terribile, nuova genealogia di tycoon con la passione per l’autocrazia e per il potere, fosse già parte anch’essa parte di un’epoca lontana, arcaica, che il ricordo rende non più così terribilmente divisiva, ma quasi innocua, giocosamente malinconica e in fondo in fondo divertente. C’è l’imperatore Francesco Giuseppe e i ragazzini della gioventù hitleriana, ci sono le protagoniste dei café chantant e i manifesti di propaganda politica, e ancora una pletora di perditempo, flaneur ed eroi di guerre antiche, alpini, bambini e buoni padri di famiglia: tutti quanti, protagonisti e comprimari di una storia che si dipana senza apparente senso né filo logico all’interno di una cornice solo apparentemente monocorde, eppure ogni volta sorprendente, varia, impercettibilmente evocativa e sottilmente malinconica.

Gian Marco Montesano Hollywood I sogni del 900 2015 olio su tela cm 70×100 Courtesy Galleria Claudio Poleschi

Ecco allora che il vasto, inesausto racconto per immagini di Gian Marco Montesano non è che un grande sintetizzatore di elementi, di immagini apparentemente scollegate le une alle altre, eppure vivissime in noi, come se abitassero ancestralmente dentro la nostra memoria e nel fondo più fondo della nostra storia individuale e collettiva. Vivissime, e rinvigorite, paradossalmente da una pittura fredda, millimetricamente evocativa, ma mai compiaciuta, che non vuole abbellire, non conosce retorica né strizzate d’occhi, non cerca artifici o virtuosismi: un’ossimorica fredda e insieme giocosa pittura di storia per un’epoca che non ha più una storia da raccontare, in qualche modo non ha più neppure una memoria, perché le è fatalmente venuta a mancare la logica stessa con cui mettere gli avvenimenti in fila uno all’altro. In un’epoca in cui la differenza tra immagine reale e immagine fake diventa quasi impossibile da stabilire, le straordinarie “cartoline” storiche e visive di Montesano ci appaiono come immagini di un sogno, un sogno lontano, a volte felice, a volte divertente, gioioso, o malinconico, a volte velato appena da un’ombra d’inquietudine, ma mai d’orrore, quasi la distanza trascorsa tenda involontariamente a farci dimenticare il terrore, le difficoltà, i genocidi, i drammi, i massacri, gli odi le passioni e le tensioni che pure, dietro a quelle immagini, si celavano.

Gian Marco Montesano Amerique 1 2018 olio su tela cm 80×130 Courtesy Galleria Claudio Poleschi

Quelle di Montesano sono, allora, immagini simboliche di un tempo che non esiste più, e che pure ci portiamo dietro, come un fantasma che non vuole saperne di lasciarci andare. Lo sguardo di Montesano, delle sue mille reminiscenze storiche in bilico tra apparente santificazione e sottile dileggio, è quello di uno strano viandante della storia, di un testimone, lo stesso sguardo del pittore “pellegrino” che attraversava l’Italia per portare al popolo la Buona Novella, ma senza più l’utopia di una fede o di un’ideologia: il suo è il disincanto dell’artista solitario di oggi, al di fuori di ogni gruppo, di ogni corrente, di ogni ideologia, che riguarda al passato, il suo e il nostro, come a un territorio da esplorare sempre, costantemente, inarrestabilmente, sapendo anticipatamente che non potrà mai più essere abbracciato integralmente, come un unicum coerente e sensato.

Gian Marco Montesano Au café de Flor à Paris 2009 olio su tela cm 100×85 Courtesy Galleria Claudio Poleschi

Avendo fin da giovane compreso che non solo i sistemi di valori a cui il cosiddetto “contemporaneo avanzato” si rifaceva erano già pericolosamente sul punto di sbriciolarsi di fronte all’incedere dell’irrealtà di un dominio (politico, economico, tecnologico) che diventava sempre più articolato, globale, difficile da catalogare e comprendere nella sua interezza, Montesano ha cominciato a guardare al mezzo pittorico non come a un ritorno, non come a un gioco, di taglio postmoderno, sulle categorie dell’Alto e del Basso, né della citazione o della ripresa di canoni ormai tragicamente passati, ma come a un mezzo che, pur nel suo mimetizzarsi con le immagini mediali (cinema, fotografia, cinegiornali), fissa con una sua irrecuperabile fermezza e lucidità tutto ciò che siamo stati, tutto ciò che la nostra memoria, la nostra cultura, il nostro immaginario ha immagazzinato e fatto proprio, per diventare ciò che siamo ora. Lo fissa, quasi con struggimento, sulla tela, un attimo prima che l’irrompere totale delle nuove tecnologie e delle nuove intelligenze artificiali possa spazzare via tutto, mescolando freneticamente storia vera e manipolata, vero e falso, memoria reale e fittizia. Come un ultimo, estremo tentativo di rimanere ancora padroni, se non di noi stessi nella nostra interezza di uomini come lo eravamo un tempo, per lo meno della nostra memoria, del nostro passato, e forse, chissà, anche del nostro presente.

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