Il 23 novembre si è concluso il ciclo di tre serate, tutte andate sold out, della performance site-specific Blusansevero, ideata dall’artista napoletano Mauro Maurizio Palumbo, per la prestigiosa Cappella Sansevero.
Mantenendo inalterata la centralità del Cristo velato, protagonista indiscusso di questo tempio della sperimentazione settecentesca, la performance porta all’attenzione dello spettatore, oltre alla più che riconosciuta bellezza in sé del contesto architettonico e scultoreo barocco, una luce dai toni blu oltremare.
Con questa veste scenografica si celebra la recente scoperta dell’Università degli Studi di Bari, che ha portato alla luce il fatto che il primo scienziato a sintetizzare il lapislazzuli per produrre il pigmento artificiale del blu oltremare sia stato il Principe VII di Sansevero, Raimondo di Sangro.
Quindi, benché tutt’ora questa scoperta venga attribuita al chimico francese Jean-Baptiste Guimet, il quale evidentemente nel 1828, circa cinquant’anni dopo, realizzò un prodotto analogo e commerciabile, aiutando la diffusione di questo parente più povero tanto del lapislazzuli, quanto dell’azzurrite, acquistabile a costi decisamente più contenuti, la sintesi chimica è avvenuta per la prima volta per mano dello scienziato, esoterico e scultore pugliese Raimondo di Sangro.
Questo il tema che sottende la trama della performance di Mauro Maurizio Palumbo, che al blu diffuso in sala aggiunge la sua fisicità, in un tentativo di interconnessione tra il sé in azione e l’altro, gli spettatori inerti come i marmi delle decorazioni presenti nello spazio.
Con lui, a dar voce a questa interazione, il soprano drammatico Ilaria Tucci e il musicista Ciro Ricciardi alla tromba, in un controcanto reciproco che fa da tappeto all’azione, uno scambio dicotomico tra inizio e fine, presenza e assenza, vita e non vita, che accompagna alla comprensione del senso.
Il rumore deciso dei chiavistelli che serrano il portone segnala il via dell’azione performativa. L’artista si fa strada tra la folla che lo osserva, con il passo cadenzato dal ritmo di una musica da banda, cerca la complicità negli sguardi degli astanti. La performance è un arte diversa. Totalmente fisica. Alla base c’è il corpo come materiale, non si segue un testo preciso, ma un’idea o un concetto.
In Italia, tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 si manifestò come “degenerazione” estrema del poverismo, i riferimenti sono Vasco Bendini, per certi versi Luigi Ontani con i Tableaux vivant, Michelangelo Pistoletto e, successivamente, anche Gina Pane, Marina Abramovich e l’estremo Franco B. con quel ramo del concettuale conosciuto come Body Art.
Quando questi artisti usano il corpo, esso non appartiene più alla realtà, non è più di chi lo indossa, ma è un’entità in totale balia della metamorfosi creativa. Diventa materia manipolata dall’idea per costruire la visione.
La connessione con l’altro non è una richiesta di reale comprensione compassionevole, ma è un’apparizione agli occhi di chi osserva. Non è quel corpo a chiedere di essere osservato, ma è il fruitore che sta osservando. Se voltassimo la testa, quella cosa accadrebbe lo stesso, perché non ha bisogno di un pubblico per esistere, alla stessa maniera di un quadro o di una scultura.
Mauro Maurizio Palumbo ha posseduto gli astanti con la sua fisicità, trasportando l’interesse della platea in questa dimensione in cui ha realizzato una rivelazione altrimenti invisibile, inesistente. Come il fantasma di quel corpo che giace rigido sotto quel lenzuolo di marmo, ha danzato fra le persone. Ha ricordato agli astanti la vicenda della dolorosa metamorfosi.
Nel blu ritorna ad essere carne viva, quel corpo dannato che prende coscienza di essere ormai fuori dal tempo. Reduce da un viaggio temporale, si ritrova smarrito e avvolto dall’oltremare, ultima trovata postuma del Principe di Sansevero.
Come cavia del suo padrone, ne prende atto e, sconfitto, stende il suo corpo al suolo, sul gelido marmo ormai familiare, perdendo i sensi avvelenato dal blu, in attesa del prossimo risveglio, tramite la rivelazione di un’altra novità, forse tra altri quattrocento anni.