Una fascinazione intensissima per l’umanità primordiale: il primitivismo di James Brown alla Galleria Scaramouche di Milano

A un certo punto della sua carriera di personaggio immaginario, Scaramouche sostituisce la spada con la chitarra e diventa sempre più menestrello e bohemien. Cent’anni dopo questa maschera è protagonista della rapsodia bohemien dei Queen. Daniele Ugolini si riconosce nelle attitudini del personaggio e lega il nome di Scaramouche alla galleria che apre nel cuore del quartiere bohemien di Lower East Side a Manhattan.

Dopo questa esperienza newyorchese, Ugolini torna in Italia e fissa la nuova sede della Scaramouche a Milano, a pochi passi da Porta Romana e Corso Lodi e in collaborazione con Simone Ferretti. E il primo artista che trova spazio nel bianco delle pareti è un artista che ha conosciuto negli anni statunitensi e che ci ha lasciati tragicamente all’inizio del 2020: James Brown, in mostra sino al 5 aprile con opere del periodo 1981-1986, ovvero gli anni in cui l’artista californiano si misura con il graffitismo metropolitano. 

(a sin.) ANGELS AND SPIRITS, 1983 Tecnica mista su carta intelata dall’artista, firmata, titolata e datata a retro “New York 1983” 151,0×126,0 cm

Prehistoric New York: 1981-1986” è infatti il titolo di questa ampia selezione (più di trenta opere), curata impeccabilmente, che include non solo opere di grandi dimensioni, ma anche opere grafiche, su carta e opere in terracotta e legno. La data di termine di questo periodo creativo è certa giacché, dal 1987 James Brown inizia la propria carriera da astrattista. Nel periodo preso in esame, da un lato Brown richiama elementi atavici delle popolazioni native e le rilancia su tela con gesti davvero poderosi. D’altro canto, sono anche presenti stilemi tipici dell’Art Brut e dunque il pendolo della mostra oscilla tra questi due poli, creando scontro concettuale e stilistico tra forme di arte primitivista e arte da outsider. Lo stesso scontro concettuale è ripreso dal titolo dato dai curatori: per antonomasia New York non può definirsi primitiva, eppure ai nostri occhi si rivelano archetipi sociali che proiettano la fruizione verso archetipi ancestrali.

Con il supporto in situ decisivo di Enrico Fornello, terzo moschettiere della Galleria, scopriamo subito che non vi sono vere e proprie serie tematiche, sebbene siano chiari almeno 5/6 stili espressivi. Ed è un trionfo di figure umane sofferenti, visi che sembrano urlare la propria identità, martiri in pieno supplizio, croci disseminate nello spazio dell’opera, croci tatuate sui volti, maschere che richiamano le iconiche Moai ma anche gli enigmatici Mamutones, bambole che sembrano feticci, paletta cromatica che vira ampiamente su colori chiari come il beige o una tiepida ruggine, collocazione spaziale asimmetrica e lontana da logiche prospettiche. Sono tutti gli elementi che caratterizzano questo lustro creativo, tipicizzato anche da tanti untitled e da molteplici opere che superano i due metri su uno dei lati.

UNTITLED, 1983 Tecnica mista su cartoncino, firmato e datato “James Brown New York 1983” a retro 101,0×152,4 cm

Un’opera che contiene la moltitudine di elementi succitati è un Untitled del 1983 (170,0×245,0 cm su tela di juta), in cui davanti ai nostro occhi appare strabiliante la capacità di Brown di rivelare l’essenza della sofferenza, accostando figure ancestrali, maschere rituali, martiri cristiani (ricorrente è la figura di San Sebastiano), figure umane che sembrano appese a (o sospese su) ganci immaginari e croci a simboleggiare la sofferenza patita da popoli antichi per mano di altri popoli. 

Un Untitled del 1982 (142,0×152,0 cm su cartoncino) può invece essere preso ad esempio di pura art brut: il tratto è scarno, essenziale, precario, segni sulla superficie che richiamano quasi infantilmente un viso. Nubi with green gloves del 1981 (164,0×122,0 cm su carta montata su tela) rappresenta una figura forse non binaria che sembra provenire da un pianeta altro: il verde dei guanti si associa al medesimo vivace verde della capigliatura e tutto è non prospettico, fuori quadro, poco al di sopra del minimo livello di essenzialità. Angels and Spirits del 1983 (151,0×126,0 cm su carta intelaiata) annulla lo sguardo e il gesto della figura umana ritratta e la paletta cromatica si amplia di qualche tonalità. 

UNTITLED, 1983 Olio e smalto su tela di juta, a retro etichetta della Art Consulting Kimmerich di Dusseldorf 170,0×245,0 cm

Una terracotta policroma del 1985 (Untitled, 54,0×43,0 cm) richiama stilemi protocubisti con al centro un viso che mostra pienamente solo un occhio, uno sguardo ieratico e ammonitore con gli elementi del viso (naso, bocca, collo) fortemente distorti. Le grafiti su carta riducono allo stadio zero il tratto dell’artista che riporta con pochi colpi di mano figure che avvicinano al più urbano graffitismo. Winter del 1984 (142,3×127,0 cm su tela) è l’apoteosi più viva della ricerca portata avanti da James Brown in questa fase newyorchese e preistorica. Il viso occupa tutto lo spazio della tela, con una ieraticità e un senso del monito che gelidamente centrano e impietriscono lo sguardo di chi osserva.

Installation View 2nd Room da pagina facebook Scaramouche

Non può mancare ovviamente, ed è l’ultima opera che citiamo in questa silloge critica che ha voluto includere la decina di opere imperdibili, un Untitled (91,5×97,0 su tela) dedicato al mentore assoluto del periodo: Andy Warhol è ritratto quasi come su un negativo fotografico e il tratto pittorico anche qui è scarno, essenziale, diagonale e frutto di una urgenza pittorica che si allontana ulteriormente dalla perfezione stilistica. L’esplicita dedica di questo smalto e acrilico, nella sua essenzialità, è la firma assoluta di un artista bianco che si è introdotto in mondi non suoi, ha esplorato territori lontani dalla propria confort zone, trasferendo sullo spazio della tela la voce di mondi che ha saputo reinterpretare, in modo molto originale, riuscendo a raffigurare una fascinazione intensissima verso la natura primordiale e fraterna dell’umanità.

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