Immaginate qualcuno che sia, allo stesso tempo, un ex presidente americano, un uomo alle prese con un misterioso attacco informatico e… Robert De Niro. Ecco il protagonista di Zero Days, la nuova serie Netflix disponibile dal 20 febbraio che intreccia politica, spionaggio e cyber-guerra.
Ma partiamo dal titolo: cosa significa Zero Days? Un attacco zero-day si verifica quando gli hacker sfruttano una vulnerabilità sconosciuta in un software prima che il suo sviluppatore possa correggerla. Questo lascia al produttore zero giorni di tempo per reagire, rendendo l’attacco particolarmente insidioso e difficile da contrastare.
La serie Netflix Zero Days si apre proprio con un attacco informatico di questo tipo che si rivela devastante: per un intero minuto, tutti i dispositivi elettronici cessano di funzionare, paralizzando trasporti ferroviari, metropolitane e traffico aereo. Il blackout causa decine di migliaia di vittime e getta gli Stati Uniti nel caos. Con il governo sotto scacco e nessun nemico identificabile, la Presidente degli Stati Uniti Evelyn Mitchell (Angela Bassett) affida all’ex Presidente George Mullen (Robert De Niro) il compito di guidare la Commissione “Zero Day” per scoprire la verità dietro l’attacco.
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Dunque, è già il titolo a suggerire il tema della serie: una riflessione sulla realtà in cui viviamo, dove, come individui e come società, siamo completamente dipendenti dalla tecnologia, a tutti i livelli. La serie esplora non solo questa fragilità, ma anche le conseguenze di un mondo iperconnesso, in cui la tecnologia, oltre a semplificare la nostra quotidianità, può diventare un’arma capace di destabilizzare intere nazioni.
C’è però un secondo tema, meno evidente ma altrettanto inquietante: la salute mentale in un’epoca in cui siamo bombardati da un flusso incessante di informazioni dalla provenienza spesso incerta. Emblematica in tal senso è la scena in cui l’ex presidente Mullen si presenta in pubblico per mostrare il suo supporto al popolo americano, solo per essere accolto da una folla inferocita che nega la realtà stessa della tragedia in corso, convinta che le vittime siano attori e che tutto sia una messinscena orchestrata. Questa scena richiama in modo immediato le immagini dei sostenitori di Trump, accecati dalle fake news, intrappolati in una bolla di disinformazione che fa della verità un concetto malleabile, capace di adattarsi a ogni teoria cospiratoria.
La serie, tuttavia, non è priva di difetti: il ritmo eccessivamente lento è uno dei più evidenti, e questo rischia di far perdere interesse allo spettatore. Ma proprio quando sembra che la narrazione si stia impantanando, arriva un colpo di scena che ribalta la situazione: un evento misterioso scuote l’ex presidente Mullen, facendogli dubitare della sua stessa sanità mentale.
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È in questo momento che gli autori Eric Newman (Griselda, Narcos) e Noah Oppenheim (ex presidente News della NBC, sceneggiatore di Jackie e Maze Runner – Il labirinto) si rivelano abili nel giocare con la colonna sonora, scegliendo una traccia tanto di nicchia quanto perfettamente azzeccata: Who Killed Bambi?, una canzone beffarda e surreale dei Sex Pistols, interpretata da Tenpole Tudor. Il brano, che fa parte della colonna sonora di The Great Rock and Roll Swindle, diventa ancora più significativo se si considera la figura di Tudor stesso. Con la sua voce irriverente e il suo atteggiamento dissacrante, Tudor è un cantante britannico che appare come un giullare medievale punk, un personaggio che si prende gioco della realtà e la ridicolizza, cantando con un tono di sfida che riporta ad un senso di caos e di anarchia.
La canzone diventa un leitmotiv ricorrente, con estratti distorti che risuonano ogni volta in cui Mullen attraversa strani episodi di confusione mentale, quasi come a frantumare la realtà stessa. La domanda “Chi ha ucciso Bambi?” si trasforma in simbolo di una riflessione più profonda sull’illusione e la manipolazione, esplorando come la percezione della verità possa essere distorta e svilita. La paranoia diventa il filo conduttore, non solo di questa serie ma anche di un’epoca, dove tutto sembra muoversi su due binari paralleli: la “normale” realtà e una distorta “realtà alternativa”, una copia deforme e inquietante, un doppio spaventoso dove ogni certezza è messa in discussione.
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Zero Days segna un momento significativo nella carriera di Robert De Niro, che, pur avendo già interpretato ruoli principali in produzioni televisive come The Wizard of Lies (2017), offre qui una performance magnetica che arricchisce notevolmente un prodotto interessante ma ostacolato dalla sua durata eccessiva. Se la serie fosse stata concepita come un film, probabilmente ne avrebbe guadagnato in efficacia: molte scene sembrano dilatate senza una reale necessità, quasi a riempire spazio più che a servizio della narrazione. Inoltre, emerge un tentativo di critica sociale all’America che, però, resta timido e prudente, senza mai affondare davvero il colpo.
Il risultato è un racconto che sembra trattenersi, evitando di affrontare con coraggio i temi più scomodi. La serie ha diviso la critica in due fazioni: da un lato, chi apprezza l’ambizione della trama e il cast, dall’altro, chi non ha potuto fare a meno di annoiarsi, come evidenziato dal Daily Telegraph che l’ha ridotta a un esercizio di stile dove “l’unico motivo per guardarla è Robert De Niro”. Il tema, già di per sé impegnativo, viene appesantito da una narrazione vanamente dilatata, che non solo fatica a mantenere alta l’attenzione, ma rischia di svuotare la riflessione sulle sue stesse tematiche.