Quando era ragazza e girava per Los Angeles alla ricerca della sua strada, con gli occhialoni, la massa di riccioli selvaggi e gli abiti a fiori, Trina Robbins era lo stereotipo della hippy scatenata: non facevi fatica a immaginartela in qualche manifestazione di donne arrabbiate mentre brandiva un cartello contro il patriarcato. E in effetti femminista militante lo era davvero, ma la sua militanza – oltre che nei cortei – avveniva attraverso l’arte.
Disegnatrice di moda e poi fumettista perennemente in battaglia contro un ambiente brutalmente macho (“quando osavo criticare i miei colleghi perché rappresentavano lo stupro come una cosa divertente, mi accusavano di non avere il senso dell’umorismo”), Robbins è quella che dopo quarant’anni di appannaggio maschile si è appropriata della figura di Wonder Woman e pian piano l’ha trasformata da semplice pin-up muscolosa in paladina dei diritti delle donne.
È mancata qualche giorno fa a San Francisco, lasciando un compagno (Steve Leialoha, a sua volta disegnatore di fumetti, quattordici anni più giovane di lei) e un’eredità di saggi sul fumetto e sulle sue agguerrite disegnatrici donne.
Quando era ragazzina adorava i comics, ma i supereroi come Superman e Batman la annoiavano. Lei non cercava figure maschili di cui innamorarsi (un uomo che vola in pigiama e un altro che vive sottoterra, del resto, non fanno esattamente sognare), ma super ragazze in cui identificarsi. Perché anche le rare supereroine, alla fine, nel fumetto mainstream erano relegate a ruoli secondari, rivelavano eccessi di emotività (a volte addirittura d’isteria) ed erano considerate poco più che gregarie, come la povera Sue Storm, la dona invisibile, raccontata mentre porta il caffè al macho di turno.
Il primo lavoro creativo di Robbins, però, è nella moda: disegna abiti così intriganti e originali che riesce addirittura ad aprire una boutique sua, Broccoli. Siamo a New York, sono gli anni Sessanta e Trina la apre proprio nell’East Village, da dove passano tutti, da Donovan a David Crosby. E sarà lì che Trina incontrerà Joni Mitchell, per poi diventare il personaggio di una sua canzone: Ladies of the canyon. Ma il fumetto continua a girarle nella testa: lei ha voglia di raccontare storie.
Quando arriva a San Francisco, però, si deve scontrare con un ambiente avvelenato dal testosterone, capeggiato dalla star del fumetto Robert Crumb, che proprio non ne vuole sapere di dare alle sue storie una connotazione di “sexuallly correct”. A salvarla è la rivista “It aint me, babe” (qualcosa come “non sono io, tesoro”) realizzata da una squadra di sole donne e dove, finalmente, Robbins può toccare argomenti prima vietati, come l’omosessualità femminile e l’aborto. Ma il comic book non è, come si suol dire, uno sport per signorine, e le ragazze terribili fanno fatica a farsi notare, anche perché il pubblico femminile non frequenta i negozi di fumetti, considerati appannaggio degli uomini (spesso con una discreta predilezione per il voyerismo).
Per allargare il suo pubblico, Robbins punta allora sul glamour, inventandosi eroine fashion che facciano l’occhiolino ai gusti delle ragazze (come Meet Misty e California Girls), oppure prende a prestito le figure più gettonate, come ad esempio Barbie, e ne fa le protagoniste di storie forti, dove non si abbia paura di toccare temi come i disturbi alimentari o la vecchiaia.
Anche se il suo capolavoro resta la metamorfosi di Wonder Woman. Quando comincia a disegnarla, a metà degli anni Ottanta, si rende conto di avere in mano un piccolo tesoro. Lentamente ne determina la trasformazione da pupa sexy che con la sua forza rende solo un po’ più piccante l’esperienza del lettore maschio (un po’ come quelle che fanno la lotta nel fango, per capirci) a vera e propria eroina femminista, arrivando addirittura a renderla protagonista – nella graphic novel Wonder Woman the once and future story, realizzata in collaborazione con la collega Colleen Doran – di storie in cui si denunciano la violenza di genere e gli abusi in famiglia.
E poi ci sono i saggi di Robbins, che fanno finalmente luce sul ricco – e ancora misconosciuto – mondo delle disegnatrici di fumetti, così come sulle eroine e sulle supereroine. Nel 1996 pubblica The great women superheroes, dove stigmatizza ammiccamenti e svenevolezze attribuite per troppi anni alle ragazze dei fumetti, nel 1999 From girls to Grrrlz, storia del fumetto e della sua relazione con il femminile dai primi anni Quaranta al 1990, e nel 2013, a settantacinque anni, Pretty in ink, sulle cartooniste americane attive dal 1896 al primo decennio del nuovo millennio.
Trina lo considerava il suo capolavoro; e delle ricerche, durate decenni, lamentava l’estrema difficoltà dovuta al fatto che molte artiste, per non essere boicottate, avevano scelto di firmarsi con uno pseudonimo maschile.