A primo impatto, sembrerebbe in tutto e per tutto simile un lavoro di Emilio Isgrò. Eppure, il complesso lavoro di ricostruzione della genealogia degli antenati che l’artista aborigeno Archie Moore, ospitato nel Padiglione dell’Australia come rappresentante del suo paese, ha un significato diverso. Le migliaia e migliaia di documenti che l’artista ha allineato al centro del padiglione costituiscono un monumento visivo e concettuale che riflette sulle ingiustizie e sulle sfide affrontate dai popoli delle Prime Nazioni, ponendo l’accento sul tema dell’incarcerazione dei nativi e sulla continua lotta per la giustizia sociale ed economica.
L’artista, discendente delle etmie Kamilaroi e Bigambul da parte di madre, e britannico e scozzese da parte di padre, ha trascorso quattro settimane massacranti iscrivendo migliaia di nomi sulle pareti e sul soffitto del Padiglione, trasformando il padiglione in un enorme grafico genealogico disegnato a mano con gesso bianco sulle quattro pareti, i suoi collegamenti con le Prime Nazioni abbracciano più di 2.400 generazioni e 65.000 anni di storia. Al centro dell’installazione c’è una vasca riflettente, che simboleggia la storia dei popoli delle Prime Nazioni e funge da memoriale per le ingiustizie subite dai popoli indigeni. Sopra di essa, sono sospese più di 500 pile di documenti, principalmente rapporti del coroner e inchieste coloniali sulla morte di indigeni australiani in custodia di polizia. Questi documenti mettono in evidenza una triste realtà: nonostante costituiscano solo il 3,8% della popolazione australiana, le persone delle Prime Nazioni rappresentano il 33% della popolazione carceraria del paese, rendendoli uno dei gruppi più incarcerati a livello globale. Pur concentrandosi sulla parentela e sulla resilienza degli indigeni, la mostra affronta dunque anche il sistema carcerario australiano, dalle prime colonie penali nel 1788 all’impatto duraturo dell’incarcerazione sui Primi Popoli del paese.
Attraverso questa installazione, l’artista collega il personale e il politico, mettendo in luce le ingiustizie storiche subite dalla sua stessa famiglia e da molti altri popoli delle Prime Nazioni. I documenti storici, tra cui quelli che riguardano direttamente la famiglia dell’artista, narrano storie di discriminazione, violenza e ingiustizia perpetrate contro gli indigeni australiani nel corso degli anni.
I punti in cui i documenti recano tracce di cancellazione – proprio come avviene da decenni nel lavoro dell’italiano Emilio Isgrò – rappresentano dunque, nelle intenzioni dell’artista, le atrocità inflitte alle comunità delle Prime Nazioni, come i massacri, l’introduzione di malattie e la distruzione della conoscenza, che hanno prodotto traumi intergenerazionali di cui ancora oggi i loro discendenti affrontano le conseguenze. In risposta, la scelta di Moore di materiali didattici – fragile gesso sulla lavagna – affronta l’insufficiente diffusione delle storie della gente delle Prime Nazioni.
Andando oltre il semplice riferimento alla parentela e alle relazioni familiari, il titolo della mostra, “Kith and Kin” (traducibile con “amici e parenti”) si riferisce alla comprensione dell’attaccamento al luogo e al tempo da parte dei popoli delle Prime Nazioni. Moore ha scelto il titolo dopo aver scoperto una definizione del XIV secolo per la parola arcaica kith, che significa “connazionali o del proprio paese”, che secondo lui era in linea con la concezione indigena della terra stessa come parte del loro sistema di parentela. L’uso del gesso sulla vernice della lavagna allude invece alla sua esperienza educativa, nella quale “non si faceva mai menzione della storia indigena”. “Sono stato attratto da una definizione in inglese antico di Kith”, racconta l’artista, “che significa ‘la propria terra natale’, poiché mi sembrava una comprensione molto indigena della connessione tra sé e la terra. I miei antenati vedevano la terra stessa e tutto ciò che conteneva come parte del loro sistema di parentela. La carta genealogica degli antropologi è un’idea molto occidentale di come le persone sono interconnesse come famiglia. È una concezione diversa rispetto alla parentela aborigena, dove potresti avere diverse persone che chiami madre o padre e i cugini potrebbero essere chiamati fratelli”. In mezzo al delicato reticolo bianco dei nomi ci sono tre grandi buchi neri, che segnano uno spazio per il silenzio e il dolore; questi rappresentano un’interruzione nella linea genealogica, ha detto Moore, “sia attraverso un massacro o un’epidemia virale, o dove i documenti sono stati distrutti o non sono stati registrati correttamente in primo luogo”. Allo stesso modo, potrebbero riferirsi alla perdita linguistica: dei circa 700 dialetti indigeni esistenti nel continente quando gli inglesi sbarcarono nel 1770, oggi ne sopravvivono meno di 160.
La ricerca dell’artista parte da una scoperta di documenti riguardanti la propria famiglia: “Ho iniziato a interessarmi a saperne di più sulla mia famiglia dopo che mia madre ha avuto un ictus nel 2016. Ho iniziato a rendermi conto di quante informazioni sarebbero andate perse se fosse morta. Dopo un piccolo ictus, mia madre è diventata più aperta nel discutere la storia familiare, e anche più lucida. Mi sono interessato sempre più alla genealogia e ho iniziato a cercare negli archivi il lato Kamilaroi e Bigambul di mia madre e il lato britannico e scozzese di mio padre. Mi sono imbattuto in materiale in biblioteche, giornali, mappe catastali, diari pastorali, società storiche, archivi di stato e racconti orali dei miei familiari. Le informazioni d’archivio scritte disponibili nella mia parte aborigena si fermano molto prima che nella mia parte europea, perché il vasto archivio orale delle Prime Nazioni è stato distrutto a causa della colonizzazione e del disprezzo per le nostre conoscenze che non avevano forma scritta”.
“Durante la mia ricerca”, ha raccontato ancora l’artista, “mi sono imbattuto in un albero genealogico di quando l’antropologo Norman Tindale nel 1938 visitò Boggabilla (la città da cui proviene la sua famiglia, ndr), e intervistò la mia bisnonna dal lato materno”. Da quel momento, la sua ricerca ha preso un percorso più concreto, portandolo alla struttura che troviamo oggi nel Padiglione australiano.
Moore intreccia la sua continua ricerca genealogica con le storie più ampie dell’Australia, riconoscendo le perdite culturali e linguistiche derivanti dalla colonizzazione e sforzandosi di recuperarle. Scavando nei ricordi personali e transgenerazionali, l’artista ricorda le esperienze della sua infanzia, così come i suoi antenati Kamilaroi, Bigambul, britannici e scozzesi.
Dunque, c’è un legame con il lavoro di Isgrò, che da sempre utilizza la cancellazione come cifra del suo lavoro? Se stilisticamente non si può negare che la somiglianza sia impressionante, va però detto che il significato che sta dietro al lavoro è esattamente opposto. “Nel mio lavoro”, dichiarava infatti qualche anno fa Isgrò in un’intervista, “esiste questa doppia funzione: fingere di distruggere per esaltare e qualche volta esaltare per distruggere. È un’azione che nel momento stesso in cui distrugge, ricostruisce. È il negativo della scrittura che presuppone il suo positivo, difatti certe parole scampano alla cancellatura, a volte sono semplici segni come le virgole, la punteggiatura e le parentesi. Penso che la mia cancellatura non sia distruzione della parola ma un’esaltazione della scrittura e della sua funzione”. E ancora: “La cancellatura in realtà nasceva da una mia riflessione degli anni Sessanta sulla relativa impotenza della parola in una società massmediatica che è interessata principalmente al linguaggio visivo”. “I latini dicevano che due negazioni affermano, io a forza di cancellare, quindi di negare, ho affermato la bellezza del mondo e della vita. Tutto il contrario di quello che la gente pensa del mio lavoro, che troppo spesso è percepito come un’azione distruttiva. Negli anni ho cercato di portare la cancellatura a essere uno strumento dialettico tra il sì e il no delle cose, in un modo pendolare tra le varie possibilità, quindi un dubbio permanente, tipico del pensiero greco, mediterraneo e ancor più siciliano”.
Nel lavoro dell’artista aborigeno, invece, il significato appare esattamente opposto: le cancellazioni, i buchi neri, le linee nere che tagliano via parte dei complicatissimi racconti, i documenti bianchi vuoti che sostituiscono i rapporti dei coroner che non sono stati resi pubblici, hanno un significato preciso: “Solo perché non puoi vedere i nomi, non significa che tutto quello spazio non sia costituito da antenati, solo perché le persone sono state massacrate, non significa che non esistessero. E solo perché non c’è l’inchiesta del coroner, non significa che la morte di quella persona non avesse importanza”, ha detto Ellie Buttrose, curatrice del Padiglione. Un invito a riportare alla luce antiche storie, esistenze cancellate. A volte, nell’arte, gli stessi elementi grafici e stilistici hanno significati diametralmente opposti. In entrambi i casi, però, le cancellazioni hanno un significato positivo: riportare alla luce, trovare speranza, dare vita alla parola, e con essa al mondo. L’arte, così, riporta l’armonia dove il mondo e la società sembravano averla cancellata.