“Göbekli Tepe è un sito che contraddice radicalmente tutti i presupposti taciuti dei paleoantropologi”.
Così il compianto Roberto Calasso, nel meraviglioso “Il Cacciatore celeste”, descrive Göbekli Tepe.
A queste parole fanno eco quelle di uno dei più carismatici archeologi della nostra epoca, Ian Hodder, che, senza mezzi termini, definisce Göbekli Tepe un sito “che cambia completamente le carte in tavola, rivoluzionando molte delle teorie finora elaborate per spiegare la cosiddetta Rivoluzione neolitica”.
Chissà se nel (già) lontano 1994 gli archeologi dell’Università di Heidelberg Klaus Schmidt e Michael Morsch, vagando negli altipiani ai piedi del Tauro che separano Turchia e Siria, e inciampando letteralmente su uno degli ormai celeberrimi “pilastri a T” della collina panciuta (questa la traduzione di Göbekli Tepe), si resero conto della straordinarietà della loro scoperta.
Probabilmente no, del resto solo le lunghe campagne di scavo del tepe, che durano tutt’oggi, hanno permesso di rendersi conto di ciò. Eppure, anche solo il titolo della prima pubblicazione del sito, a cura proprio del visionario Schmidt, dà perfettamente l’idea di che cosa Göbekli Tepe rappresenti per la storia dell’uomo: Sie bauten die ersten Tempel, “costruirono i primi templi”.
La collina panciuta, infatti, racconta una storia antichissima e profondissima. I suoi grandi manufatti litici zoomorfi, antropomorfi e “metamorfici” ci riportano a un passato incredibilmente remoto, tredicimila anni fa, al tempo di un’umanità ancora molto giovane, che ancora si procaccia il cibo cacciando e raccogliendo ciò che la natura circostante offre, che ancora si sposta assieme alle mandrie da cui trae sostentamento, che ancora crea i suoi strumenti scheggiando la pietra e non cuocendo l’argilla.
Ma proprio in tutto questo sta la meravigliosa anomalia del sito anatolico. In un tempo in cui avere una dimora fissa o una fonte sicura di cibo non sono ancora una priorità, altre sono le esigenze di questi esseri umani. Questi gruppi che vagano erranti per gli altipiani scelgono di riunirsi in un unico punto e di costruire qui, con un impiego di tempo e di forza immane, un grande complesso monumentale di circoli in pietra: una struttura permanente che sfida qualunque loro concezione di vita, che viene frequentata a lungo nel tempo ma mai come “casa”, che viene di tanto in tanto ricostruita e ristrutturata, a riprova dell’importanza che continua ad avere anche dopo la sua costruzione. Se ciò non bastasse, queste donne e questi uomini estraggono e scolpiscono grandi monoliti che rappresentano, verosimilmente, loro stessi, e vi associano figure animali e mostruose, in modi e concezioni che per noi sono quasi completamente insondabili. Frequentano il sito in modo saltuario, ma forse con una cadenza fissa nel tempo, in concomitanza con i fenomeni terrestri e celesti che osservano intorno a loro, vi consumano dei pasti, e probabilmente celebrano qualcosa, chissà cosa.
Parlare di riti, di santuario, di tempio o di religione per un sito così antico rischia di essere terribilmente fuorviante, ma una cosa è certa: prima di tanti altri bisogni, l’umanità di quel tempo e luogo ne percepisce un altro, un bisogno che riguarda inizialmente la sfera individuale, il rapporto che ciascuno di noi ha con quello che ritiene essere “più grande” o “al di sopra”, ma che poi si allarga, coinvolgendo coloro che sono intorno a noi, fino a creare un luogo fisico e duraturo, dove dar pace, tutti insieme, a questo bisogno.
Citando nuovamente Calasso, “occorrerà ammettere che quella ignota popolazione di cacciatori-raccoglitori si preoccupava anche di qualcos’altro, oltre che di cacciare e svellere tuberi”.
Se questa storia ti ha incuriosito, te la racconto in modo approfondito qui: