Questa è una storia di intrighi, di imbrogli, di sotterfugi, di guerre per accaparrarsi marchi milionari, di sberleffi e di dichiarazioni sibilline, di denunce in Tribunale e di sentenze che si contraddicono. Una storia sbagliata, la canterebbe De Andrè, perché nulla è come sembra e tutto si confonde nello scambio di accuse reciproche e nelle furbe mosse messe in campo dagli avvocati per difendere i propri clienti. Un brutto affare, direbbe qualcun altro, o un pasticciaccio. Già, un pasticciaccio brutto: che non parte, però, come quello arcifamoso, da via Merulana a Roma (titolo di un celebre romanzo di Carlo Emilio Gadda, ndr), ma da una zona a nord di Londra, e precisamente dall’edificio di una vecchia scuola riadattata a uffici a Bentley Heath, nell’Hertfordshire. Qui ha sede una società con un titolo abbastanza anonimo, la Full Colour Black.
“Full Color Black crea biglietti moderni per le persone di oggi”, recitano gli slogan pubblicitari pubblicati sul sito dell’azienda. “Abbiamo una vasta gamma di stili, tutti testati al dettaglio. Se un negozio ha bisogno di vivacità, noi gli diamo vivacità. Se un negozio ha bisogno di variazioni di colore in un “mare di pastelli”, abbiamo anche quello. Abbiamo carte che piacciono alla “ragazza della città” e carte che possono essere acquistate da una donna per l’uomo della sua vita. Abbiamo anche carte che gli uomini possono acquistare per le loro donne (ed essere comunque uomini mentre lo fanno) così come per fratelli, zii, papà e colleghi di lavoro”.
Dietro questa descrizione un po’ fané, molto vecchio stile, degna di una pubblicità anni Cinquanta, questa agenzia nasconde in realtà un cuore d’acciaio, denti affilati e un business milionario. Business che oggi ha portato in Tribunale, l’un contro l’altro armati, il suo fondatore, Andrew Gallagher, e l’artista più famoso, più ricercato e più pagato al mondo: Banksy. Che, proprio per questo motivo – ovvero per il fatto di dover comparire in tribunale in prima persona, con la sua vera identità, che ormai ovunque è noto essere quella del cinquantatreenne Robin Gunningham – rischia ora di perdere tutto ciò che gli faceva da scudo, sia dal punto di vista penale (per i suoi graffiti eseguiti illegalmente), sia dal punto di vista artistico-mitologico, essendo l’anonimato parte integrante della sua identità di artista. “Banksy sta finalmente per essere smascherato?” ha titolato il 2 ottobre il Daily Mail, aprendo la strada a migliaia di articoli tutti uguali in giro per il mondo. “Banksy”, spiega il tabloid britannico, “pseudonimo di Robin Gunningham, 53 anni, nato a Bristol e educato alla scuola pubblica, è stato chiamato in giudizio con l’accusa di diffamazione. Co-imputata è la società fondata da Banksy e scherzosamente chiamata Pest Control Ltd. L’uomo che ha avviato l’azione è Andrew Gallagher, 56 anni, un imprenditore iconoclasta che ha iniziato nel settore della musica, organizzando rave negli anni ’90, prima di sfruttare il potenziale commerciale dei graffiti”.
Ma facciamo un passo indietro. Cosa ha portato Gallagher a intentare una causa contro Banksy? E, soprattutto, chi diavolo è Andrew Gallagher? Fondatore, come abbiamo visto, di Full Color Black, azienda che mette in commercio cartoline d’auguri, gadget e merchanding a tema artistico, rivolto in particolare al mondo della street art, Gallagher è anche fondatore di un’altra azienda, Brandalised, License group che crea capsule collection e operazioni di co-branding con famosi marchi di moda, su cui utilizza immagini di famosi street artist. E indovinate un po’ chi è il cavallo di battaglia di queste aziende, quello che ha fatto guadagnare loro, con tutta evidenza, una grande quantità di denaro, e che i “licenziatari” – sempre che tali siano veramente – spendono nei loro siti come il loro artista di punta, tanto da mettere una sua sarcastica dichiarazione (“È davvero deprimente che l’unico a far buone foto del tuo lavoro sia il dipartimento di polizia”) nella home del loro sito?
Già, è proprio lui, Banksy, il nostro imprendibile e inarrestabile Robin Hood dell’arte. Che per tutta la vita si è beffato di permessi, di leggi, copyright, avendo anzi dichiarato, come esergo di uno dei suoi primi libri, Wall and Peace del 2005, “copyright is for losers”, il copyright è da sfigati. Ma che poi, di fronte all’attacco sistematico al suo copyright, che i venditori di merchanding di tutto il mondo mettono in atto da anni, approfittando del suo anonimato e della sua difficoltà di far valere le sue ragioni a livello legale, da qualche anno prova in ogni modo a difendersi. Con registrazioni di marchi, denunce, diffide. Ma che ora, dopo diverse sconfitte e pronunciamenti sia a suo sfavore che a suo favore, rischia di perdere a ciò che tiene di più: l’anonimato.
Ma vediamo un po’ come è iniziata questa storia, e quali sono gli sviluppi che si prevede prenderà l’affaire nelle prossime settimane. Intanto, chi è veramente Andrew Gallagher? Ex produttore musicale, Gallagher ha sempre lavorato in terreni vergini, in rapido cambiamento: nei primi anni Novanta, la sua specializzazione è stata l’organizzazione di rave party: “Ho promosso una miriade di serate in discoteca e ho reso famosi molti dj allora sconosciuti”, ha raccontato in un’intervista. “Noi siamo stati i pionieri della scena rave britannica. Grazie a un’enorme quantità di articoli in prima pagina sui rave party – tutta pubblicità negativa e gratuita –, abbiamo rapidamente guadagnato notorietà… e una base di fans molto ampia. Per soddisfare i nostri fans, abbiamo deciso di pubblicare degli album ed è stato qui che ho imparato come negoziare le licenze musicali in modo indipendente. Usando tattiche di guerriglia-marketing, ho costruito un marchio dal nulla e fare dischi è stato il mio apprendistato”.
Già da questa descrizione, si capisce molto del personaggio, che sembra davvero già un anti-Banksy della scena musicale: grande disinvoltura, molta furbizia nel capire come guadagnare in settori che si muovono sempre sul confine tra legalità e illegalità, coraggio e spregiudicatezza nel buttarsi in imprese che potrebbero portare un mare di problemi. Ma anche un mare di soldi. E infatti, presto i soldi arrivano, e anche i problemi non si fanno attendere.
“Dopo l’invenzione di Internet e il lancio di Napster, mi resi conto che le nuove tecnologie avrebbero decimato il business della musica”, racconta ancora Gallagher. “I ragazzi non compravano più musica. Si scambiavano musica gratuitamente. Nel 2003, quando l’iPod stava guadagnando terreno e i negozi di dischi cominciavano a chiudere, ho abbandonato l’industria musicale e ho iniziato a cercare un nuovo mercato in cui entrare”. Ecco come sbarca in un nuovo settore in quel momento in rapidissima espansione, quello dell’arte di strada: “Le riviste underground pubblicavano storie sulla nuova scena della street art, così ho iniziato gradualmente ad assicurarmi i diritti per quelli che consideravo graffiti di pubblico dominio commercialmente validi”. Ecco l’idea, dunque: i graffiti si trovano in strada, ciò che si trova in strada, essendo in un luogo aperto a tutti, è per l’appunto di dominio pubblico e non ha bisogno di licenze. Oltretutto, molti dei protagonisti di quel movimento vogliono restare anonimi, per non incorrere nelle sanzioni che sono comminate a chi lavora illegalmente sui muri. E per di più, molti di loro stanno diventando delle star. C’è da sfregarsi le mani per chi ha un po’ di sangue freddo, molta spregiudicatezza e la capacità di far soldi.
Ed ecco che qua entra in gioco Banksy: “In quel momento non me ne rendevo conto”, dice Gallagher, “ma la maggior parte delle fotografie che avevo scattato in strada erano di un nuovo ragazzo che si chiamava Banksy, che giocava veloce e sciolto operando sotto falsa identità”. Ecco così che, attraverso le sue società, Gallagher comincia a commercializzare i prodotti degli street artists, e soprattutto di Banksy.
Ma com’è possibile commercializzare un prodotto di un artista, benché anonimo, famoso in tutto il mondo, senza pagargli i diritti? Per Gallagher è semplice: se l’artista è anonimo, non può neanche difendere i suoi diritti d’autore. E se non lo può fare, chiunque altro può impossessarsene. “L’arte di strada non autorizzata”, ha detto ancora Gallagher, “e la creazione di graffiti sono un reato penale in tutto il mondo e le leggi sulla fotografia e sul dominio pubblico del Regno Unito ci consentono di utilizzare commercialmente le loro immagini. La nostra società è stata controllata tre volte dai migliori avvocati specializzati in proprietà intellettuale al mondo, e c’è un’ottima ragione per cui non riceviamo alcuna denuncia: deteniamo i diritti. È così semplice”.
Ecco dunque come Gallagher ha potuto tirare la corda fino quasi a spezzarla, pur di difendere il proprio diritto a commercializzare i prodotti di Banksy senza il permesso del suo autore: perché, per difendersi, Banksy avrebbe dovuto comparire in tribunale, con tanto di nome e cognome. L’unica cosa, è convinto Gallagher, che Banksy non sarà mai disposto a fare. Qua nasce dunque l’affaire Banksy-Gallagher, che si protrarrà per diversi anni, tra cause in tribunale, sentenze e controsentenze.
La controversia tra Banksy e la società Full Color Black di Gallagher si concentra inizialmente sul marchio registrato da Banksy per una delle sue opere più iconiche, il Flower Launcher. Nel 2014, Banksy aveva tentato di registrare il marchio attraverso una società, la Pest Control Office Limited, dato che non poteva farlo direttamente a causa del suo anonimato. Questo è stato il primo passo in una serie di eventi che hanno portato all’attuale disputa.
Nel 2018, Banksy, forte della registrazione delle sue opere come marchio comunitario, denuncia la Full Color Black per aver usato le sue immagini con lo scopo di vendere i propri prodotti. Nel 2019, la società di Gallagher va al contrattacco, chiedendo al giudice l’annullamento del marchio di Banksy, sostenendo che il marchio in questione, già diffusamente utilizzato da terzi diversi dal titolare, fosse privo di capacità distintiva e, soprattutto, fosse stato depositato in malafede in quanto, al momento del deposito, il depositante non aveva alcuna intenzione di utilizzarlo per gli scopi propri del marchio, ovvero vendere i prodotti. In sostanza, Banksy lo avrebbe registrato solo per impedire ad altri la sua commercializzazione. Tra le prove a sfavore dell’artista, paradossalmente, c’è una vicenda in cui l’artista aveva cercato di sfruttare le leggi sul copyright con lo scopo dichiarato di “aggirarle”: quella dell’apertura, nel 2019, di un negozio pop-up a Croydon, a Londra, chiamato Gross Domestic Product, che appare in tutto e per tutto come un negozio di merchandising dell’artista, ma che in realtà non è altro che una delle sue performance: una provocazione d’artista, come Banksy ci ha ormai abituato da tempo. Il negozio infatti è chiuso, non vi si può entrare e non si può comprare nulla, salvo registrarsi on line e tentare di comprare, a prezzi scontantissimi, qualche prodotto via internet, anche se la procedura appare complicatissima e scoraggiante. Di fatto, è l’ennesima provocazione di Banksy, ed è lui stesso a dichiararlo, ammettendo che il negozio era stato aperto per l’appunto per “aggirare le regole sulla proprietà intellettuale”: ovvero, per dimostrare ai giudici che è lui, e non altri, l’unico che può sfruttare commercialmente i prodotti derivanti dalle sue opere, e che intende farlo. In un biglietto attaccato sulla vetrina del negozio, lo stesso Banksy spiegava infatti: “Una società di biglietti d’auguri sta tentando di impugnare i diritti che detengo per la mia arte e sta tentando di utilizzare il mio nome in modo che possano vendere legalmente la loro finta merce firmata Banksy”. Di conseguenza, per evitare che altri sfruttino commercialmente le sue opere, l’artista si è trovato costretto a dover vendere del merchandising, in modo da provare di voler sfruttare lui stesso i diritti delle sue stesse opere.
L’Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale (EUIPO), incaricato di esaminare la questione, nel maggio 2021 si esprime però contro l’artista, e dà ragione a Gallagher, ritenendo, anzi, che la registrazione del marchio da parte di Banksy fosse fatta “in mala fede”, cioè solo per privare altri del diritto al loro sfruttamento economico. Nel novembre 2022, dopo che il marchio di vestiti Guess, in seguito ad un accordo con la società di Gallagher per l’ottenimento dei diritti di Flower Thrower, aveva messo l’opera sulle sue magliette e su altri capi di vestiario i vendita nel suo negozio di Regent Street a Londra, Banksy va al contrattacco, invitando i suoi follower a taccheggiare il negozio. In un post rivolto ai suoi 11,5 milioni di follower, Banksy pubblica infatti una foto del negozio Guess di Regent Street insieme alla didascalia: “Attenzione a tutti i taccheggiatori, per favore, andate da Guess in Regent Street. Si sono serviti delle mie opere d’arte senza chiedermelo, come può essere sbagliato che tu faccia lo stesso con i loro vestiti?”. Un chiaro invito all’esproprio che, è lecito credere, potrebbe essere all’origine dei nuovi guai giudiziari per lo street art di Bristol.
Nel gennaio del 2022, però, ecco un altro colpo di scena: una nuova decisione dell’Ufficio per la Proprietà Intellettuale ribalta la decisione precedente, questa volta dando ragione a Banksy. Al centro della disputa con la società di Gallagher, questa volta c’è un’altra opera di Banksy, Laugh Now But One Day We’ll Be In Charge, che rappresenta una scimmia con un cartello pubblicitario. Se Flower Thrower rimane dunque, per decisione dell’ufficio per la Proprietà Intellettuale, libero da diritti e di fatto riproducibile da chiunque, l’altra opera sarebbe invece legittimamente coperta dai diritti dello stesso Bansky.
Cosa succederà ora? Quale sarà la “denuncia per diffamazione” di cui si parla in queste ore, che costringerebbe Bansky a presentarsi in tribunale declinando, per la prima volta dalla storia di questo artisti, le proprie generalità e mostrando il suo volto? Forse un nuovo, arguto cavillo trovato dal suo antagonista, che sa che, essendo la denuncia penale e non civile, Banksy non potrà questa volta nascondersi dietro l’anonimato, né dietro la facciata delle sue società (la responsabilità penale infatti è individuale, e non dà scampo a chi vuole nascondersi, fosse anche per ragioni artistiche com’è il caso di Banksy)?
Probabilmente, è solo l’ennesimo colpo di scena di una vicenda, un pasticciaccio brutto di cui sembra non riuscire neppure a intravedersi la fine, che sta tra il surreale, il geniale e il grottesco. Ma che dice anche tanto, tantissimo, delle contraddizioni cui si muove il mondo dell’arte in questi primi decenni del duemila. Quale sarà il finale, per ora, non è dato saperlo.