Gli esordi cinematografici non sono mai scontati. Dirigere la complessa macchina che si nasconde dietro un film è un lavoro che richiede predisposizione e soprattutto una certa esperienza. A maggior ragione se non si hanno cortometraggi all’attivo, se il film in questione è girato in pellicola – oltre al costo maggiore rispetto al digitale, il formato analogico implica una serie di complicazioni tecniche – e se il linguaggio adottato è articolato, quasi schizofrenico.
Tutto questo non sembra aver preoccupato più di tanto Giovanni Tortorici, regista di Diciannove (2024), film che rispecchia tutte le caratteristiche sopra elencate. La pellicola, presentata a Venezia e in sala in questi giorni grazie a Fandango, oltre a contare sul sostegno di un regista affermato come Luca Guadagnino, racconta la storia di Leonardo (interpretato dall’esordiente Manfredi Marini), diciannovenne palermitano dall’animo inquieto. Dopo un breve passaggio da Londra si stabilisce a Siena, dove si iscrive all’università senza però frequentare, Leonardo si chiude in stanza e sprofonda nello studio della letteratura trecentesca ma anche leopardiana, in chiara antitesi con una contemporaneità a cui non sente di appartenere. Ben presto lascerà anche Siena per trasferirsi Torino, alla ricerca di nuovi stimoli.
Caratterizzato da una maturità disarmante per un regista esordiente, Diciannove mette in scena la spaccatura che si crea nell’animo umano quando si fa fatica a trovare il proprio spazio nel mondo. Tra inquadrature dinamiche e lunghe sequenze in cui l’obiettivo si ferma sul protagonista che, immobile sul letto, fissa il vuoto, Diciannove trova il modo di raccontare in una forma nuova, metaforica e al tempo stesso realistica, un momento critico nella crescita personale di ognuno di noi.
Abbiamo rivolto qualche domanda a Giovanni Tortorici.

Il tuo film racconta una storia molto personale. Hai mai avuto dubbi sul fatto che fosse la strada giusta da prendere per il tuo primo lungometraggio?
Prima di decidermi a fare questo film avevo considerato anche altri soggetti, di cui diversi puramente di finzione. La verità, a mio modo di vedere, è che il racconto che si fa, anche se è incentrato su qualcosa che non ci riguarda direttamente, alla fine parla di chi lo scrive: avrei riversato me stesso nel film a prescindere dall’argomento che avessi affrontato. Mi viene in mente Flaubert, quando diceva “Madame Bovary c’est moi”.
Prima di Diciannove non hai realizzato nessun cortometraggio ufficiale. Quanto è stato difficile il passaggio dalla grammatica letteraria a quella cinematografica?
Per quanto non abbia realizzato cortometraggi veri e propri, quando ho finito di studiare alla Scuola Holden di Torino spesso mi è capitato di sperimentare utilizzando semplicemente la telecamera del mio telefonino. La sera, con i miei amici, mi capitava di improvvisare un canovaccio e di metterlo in scena insieme a loro, per poi montare quello che avevo girato con il più semplice dei programmi esistenti. È stata una palestra, mi ha aiutato ad affinare uno stile di regia.
Il diciannovenne che eri è del tutto scomparso? Non pensi che la carica emotiva tipica di quell’età, se incanalata, possa essere un motore per la creatività?
Me lo sono chiesto e credo che in parte quella persona esista ancora dentro di me, anche se in una versione molto più consapevole e moderata. Per quanto riguarda la creatività, intesa anche come tensione verso l’arte – nel caso di Leonardo la letteratura –, ritengo che questa sia il frutto di impulsi violenti, spesso di natura sessuale, che non trovando altro sfogo vengono sublimati in questa forma. Penso che in molti casi sia proprio questa l’origine e il senso dell’arte.

Nel film le tue radici palermitane sono brevemente accennate prima della partenza alla volta di Londra, Siena e Torino. Hai in programma di indagare la Sicilia più in profondità?
Il prossimo film, di cui sto finendo i casting, è tutto girato a Palermo ed è scritto in palermitano, che non significa in dialetto stretto ma la lingua che parlavano i giovani nel 2012, quando ero adolescente io. È un immaginario a cui sono legato perché ha formato la persona che sono oggi, ma ciò che mi interessa in particolare è fornire una visione verosimile di quella che è la vita quotidiana della borghesia a Palermo, città che a livello cinematografico è conosciuta quasi esclusivamente per le sue storie di criminalità.
Inoltre a essere rappresentato è prevalentemente il centro storico, che oggi è molto turistico: i veri palermitani vivono in zone della città che non sono mai ritratte, fatte sia di belle strade che di edifici frutto del “sacco di Palermo” – il boom edilizio avvenuto tra gli anni cinquanta e sessanta, che ha stravolto la fisionomia architettonica della città di Palermo – e che caratterizzano in modo determinante l’estetica odierna di Palermo, soprattutto per chi ci vive.
La stanza in cui Leonardo vive a Siena è la stessa in cui eri stato tu stesso. È stato strano tornarci?
Sì, in effetti è stato un po’ inquietante ritrovarmi di nuovo in quel luogo. In generale quel periodo della mia vita, prima che mi ci soffermassi così insistentemente a causa del film, era rimasto latente in me. Tornare a Siena ha fatto riemergere in me una serie di sensazioni, ricordi, momenti che erano sopravvissuti nel mio inconscio ma che non avevo mai affrontato consapevolmente.

C’è una scena nel film in cui tua sorella viene a trovarti a Siena e, improvvisamente, scoppia a piangere. È ispirata a un fatto realmente accaduto?
Mia sorella venne veramente a trovarmi e, per quanto non pianse in quel momento, credo avesse percepito una cupezza in me nonostante io cercassi di nasconderla. Inoltre Siena è una città particolarmente oscura e io la portai a visitare la chiesetta sotterranea che si vede anche nel film, più simile a un obitorio che a un luogo ecclesiastico. Credo che provare un sentimento di sconforto fosse per lei quasi inevitabile.
In realtà qualche tempo dopo mi successe qualcosa di simile, e pensai che avrei potuto “retrodatarlo” inserendolo nella scena di Siena, mi pareva rendesse tutto più paradossale. Non è l’unica volta in cui ho utilizzato momenti della mia vita accaduti in un altro contesto ai fini della sceneggiatura: la scena iniziale in cui Leonardo è in macchina con la madre prima di partire per Londra riprende una frase che lei mi disse mentre stavo lavorando alla stesura del film.
Qual è il senso della scena finale, in cui il protagonista si confronta con un intellettuale interpretato da Sergio Benvenuto, psicanalista e filosofo?
Deriva da un mio bisogno di “smascherare” il personaggio di Leonardo. Per tutto il resto del film gli siamo vicini, lo osserviamo nella sua intimità, senza che però ci venga offerta un’analisi approfondita della sua figura. A un certo punto ho sentito invece l’esigenza di fornire un punto di vista più netto su Leonardo, che con il senno di poi definirei un “moralista nevrotico”. Ci tenevo che il mio punto di vista attuale sulle cose non venisse confuso con quello offerto dal protagonista nel film, che rappresenta il me di allora, ma non quello di oggi.
Perché hai scelto proprio Benvenuto per questo ruolo?
Inizialmente Leonardo avrebbe dovuto avere questo dialogo con un personaggio interpretato dal regista di Hong Kong Johnnie To, che stimo molto, ma per questioni organizzative ho dovuto rinunciare alla sua presenza. A quel punto ho pensato a Sergio, di cui apprezzo il lavoro e che mi sembrava avere, sul piano intellettuale, quella sincerità e quell’anticonformismo necessari per interfacciarsi in modo diretto con le insicurezze Leonardo.
In generale la psicanalisi mi ha aiutato molto, dandomi gli strumenti necessari a compiere un lavoro di auto-analisi necessario per comprendere a fondo i miei comportamenti, le mie abitudini e il mio stile di vita di allora.

In Diciannove convivono diversi registri musicali: elettronica nelle scene in discoteca, lirica quando Leonardo è solo in camera, trap quando il protagonista si scontra con le nuove generazioni, da cui rimane profondamente affascinato. Con quali criteri hai messo insieme la colonna sonora?
La musica, sia quella diegetica che extra-diegetica, è strettamente legata al periodo storico in cui è ambientato il film. L’approccio in tal senso è stato di forte realismo, per richiamare una specifica atmosfera musicale. Al tempo stesso, la musica classica che si sente è quella che ascoltavo a quell’età: per me era un modo di rispecchiare il lirismo che percepivo dentro di me quando camminavo per le strade di Siena, o quando, la notte, mi affacciavo sulla contrada in cui abitavo.
Il discorso generazionale è altrettanto importante, sottolinea l’ambivalenza che vive nel protagonista: da un lato l’afflato verso ideali antichi; dall’altro, una forte pulsione verso la contemporaneità, rappresentata da una gioventù che Leonardo vede come perduta, in antitesi con ciò in cui crede ma dalla cui libertà è inesorabilmente attratto, lui che, represso, vive sepolto nei libri.
Questa ambivalenza esiste anche a livello puramente linguistico: da un lato la purezza della letteratura classica, dall’altro le bestemmie e le parolacce che utilizzerebbe un ragazzo di quella età nella vita quotidiana e che sentiamo proferire anche da Leonardo.