Donne, armi, sogni e deserto: Shirin Neshat al PAC di Milano

Minuta e magnetica, Shirin Neshat è artista ormai inscindibile dal suo personaggio: artista, regista, attivista iraniana, da anni vive in esilio volontario in America. Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1999, Leone d’Argento al Festival del cinema del 2009 per Donne senza uomini (grande successo di pubblico), fotografa e videoartist che dagli anni Novanta ha messo il corpo delle donne al centro della sua ricerca, Shirin Neshat è per qualche giorno in Italia, a Milano, dove ha appena aperto la sua personale Body of evidence, Corpo del reato (fino all’8 giugno, produzione del Comune, PAC e Silvana Editoriale, che pubblicherà anche il catalogo). 

È magistralmente allestita al PAC Padiglione d’Arte di via Palestro, curata con passione da Diego Sileo e Beatrice Benedetti, e presenta una decina di video-installazioni e circa duecento fotografie in bianco e nero. È una mostra ad effetto, perché i tendaggi neri e pesanti che separano le sale con i video riportano all’atmosfera tipica dei cinema.  Dall’alto, allestite sulla passerella, ci osserva una carrellata di volti femminili: sono le Women of Allah, la serie con i volti di donna sui cui corpi l’artista ha dipinto calligrafie in lingua farsi. Fiere e inquietanti, queste donne ci fissano e tengono su un lato un’arma. Al piano terra, inondato dalla luce del giardino, un altro corposo e affascinante lavoro fotografico: si intitola The Book of King ed è un’installazione con una serie di volti di persone, uomini e donne iraniane, in pose ispirate a un antico poema persiano (la cui copia è messa sotto teca in sala). 

Shirin Neshat BODY OF EVIDENCE PAC Milano foto Nico Covre

“È la mostra più grande che ho fatto in Italia” azzarda Neshat, visibilmente compiaciuta del risultato finale. Ha passato la mattinata dell’opening a rispondere alle domande, spesso monocordi, di noi giornalisti, senza perdere quel lampo degli occhi, quello di una che pensa che l’arte possa fare la differenza nel mondo e davvero cambiare le cose. Tra una battuta e l’altra annuncia per maggio anche un progetto futuro, filmico, legato agli Stati Uniti e riflette sulla sua condizione di immigrata in un Paese che, rispetto a quando vi si è stabilita, a metà degli anni Novanta, ha decisamente cambiato pelle.

“Oggi l’Iran e gli USA non mi paiono poi così diverse”, afferma. Neshat guarda da lontano il suo Paese d’origine ma sotto casa vede i problemi del nuovo assetto-Trump: “Resto un’ottimista e finché ci sarà gente che avrà il coraggio di scendere in piazza per protestare affinché si fermino le bombe su Gaza, io ho speranza. Certo, questo è un momento molto complicato: c’è bisogno che la gente si svegli”

A 68 anni mirabilmente portati, Shirin Neshat non rinuncia al ruolo di artista e attivista, di paladina dei diritti delle donne e delle minoranze, sempre schierata contro ogni forma di oppressione. Quando nel suo Paese ci fu la Rivoluzione Khomeinista, nel 1979, era in America studiare arte e a lungo ha deciso di rimanere lì: “Dieci anni dopo sono tornata, ma non riconoscevo più il mio Paese: non mi sentivo sicura”, racconta. A metà degli anni Novanta sceglie così di andarsene per sempre: da allora vive a New York, ma da lontano ha continuato ad occuparsi della situazione socio-politica del suo Paese, mettendo sotto la sua lente di osservazione speciale la condizione femminile. 

Shirin Neshat BODY OF EVIDENCE PAC Milano foto Nico Covre

Ed è sul corpo delle donne che ci gioca la maggior parte della partita della mostra al PAC che si apre con l’affascinante lavoro Fervor”, del 2000, un video a due canali, uno per la parte maschile e uno per la parte femminile, che pone al centro del soggetto differenze e similitudini tra un uomo vestito all’occidentale e una donna velata.  Nella seconda sala, sempre ben separato da un drappo nero, il video Rapture” mette a confronto un gruppo di uomini che passeggia in un’antica città e un gruppo di donne velate che attraversa il deserto mentre nella sala successiva possiamo goderci a tutto volume “Turbolent con cui ha vinto il Leone d’oro alla la Biennale del ’99.

Il video più recente è del 2016 e si intitola Roja: ha uno stile molto onirico, come spesso succede nei video di Neshat che – ci tiene lei stessa a specificarlo – con la sua arte non parla della realtà oggettiva, non fa reportage: racconta un punto di vista, il suo. Lo vediamo anche nell’ultima sala del piano terra: la video-installazione Land of Dreams” (2019), comprende una serie di 111 ritratti fotografici e un cortometraggio. Il video rintraccia i movimenti di una fotografa che realizza un reportage dell’America rurale salvo poi capire che la donna deve in realtà carpire i sogni di chi fotografa per passare i dati a una fantomatica società segreta: questo per dare l’idea di come impegno politico e attivismo in Shirin Neshat vadano di pari passo con una visione surreale del mondo.

Per trovare gli unici video a colori, bisogna recarsi nella galleria del primo piano: in uno Neshat cammina in due città, una mediorientale e una occidentale, simbolicamente in bilico tra due identità mentre il video finale, “Passage”, è una riflessione lirica sulla morte e sulla rinascita.

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