Gianni Berengo Gardin, 263 libri e non sentirli

Gianni Berengo Gardin classe 1930, tra i più importanti fotografi italiani, ha realizzato con i suoi lavori ben 263 libri. Nel 2023, insieme a sua figlia Susanna, riguardando l’immenso archivio del fotografo, sono riusciti a trovare più di cento immagini quasi tutte mai pubblicate. Da questo grande lavoro di scavo e di ricerca è nato il progetto di un libro, e conseguentemente di una mostra.

Gianni Berengo Gardin Carnevale di Sciacca Agrigento 1994

Cose mai viste. Fotografie inedite, edito da Contrasto e presentato in mostra per la prima volta al Ma.Co.F di Brescia lo scorso anno, è il titolo del libro e della mostra che ne è conseguita, che si è spostata ora nelle Sale d’Arte di Alessandria, dove le curatrici Giovanna Calvenzi e Susanna Berengo Gardin propongono una selezione diversa, una sessantina di “cose mai viste”. L’esposizione proseguirà sino al 15 settembre. Accanto a questa, altre due iniziative di rilievo: un’altra mostra, “Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere”, aperta fino al 15 settembre 2024 al Castello di Udine, Salone del Parlamento e sale Galleria Arte Antica, realizzata dal MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo in collaborazione con Contrasto e i Civici Musei di Udine, e una graphic novel dedicata al grande fotografo, Gianni Berengo Gardin. Una storia in bianco e nero, scritto da da Chiara Narcisi e illustrato da Caterina Manganelli (Seipersei editore, pagg. 32, euro 16).

Guardare le foto di Berengo Gardin è come partire per un viaggio, senza però muoversi, dalla Calabria si va a Venezia da Parigi in Spagna, e poi ancora in Cina, in Giappone, a Londra, a Mosca e a New York. Scatti che partono nel 1954 per arrivare ai giorni nostri. E Berengo Gardin non si stanca di fotografare, e mentre ci spiega le immagini chiede scusa e ferma con la sua Leica M7 un istante che lo colpisce, e che ha la luce giusta.

Girando per la mostra cerchiamo di capire qual è il suo segreto.

Gianni Berengo Gardin foto di Luca Nizzoli Toetti

“Il merito di queste fotografie non è mio, racconta, è delle persone che ho fotografato perché la fotografia la fanno loro, secondo che atteggiamento hanno o assumono davanti alla macchina.  Io se volete ho avuto la capacità, come diceva Cartier-Bresson di scattare al momento giusto, è una capacità artigianale perché la fotografia è un artigianato. Io per sessant’anni ho stampato in camera oscura dove stampi con le mani come un artigiano vero”.

Cosa pensa delle fotografie d’arte?

Penso che siano dei finti quadri, le foto che trovo interessanti sono quelle di reportage, che ormai si fanno poco, perché fra cento anni, quando probabilmente nessuno di noi ci sarà più, saranno un documento importante di come eravamo.

Fotografare come lo fa Berengo Gardin non è facile: bisogna saper vedere, saper scegliere, saper inquadrare, saper usare la luce e riconoscere anche il momento dello scatto. E Lui lo fa in modo magistrale.

“Ognuno di noi interpreta la foto in maniera diversa”, ci spiega ancora l’artista, “a seconda della propria sensibilità. C’è un detto, per cui è meglio una fotografia di mille parole, ma io non credo sia vero perché per ogni foto serve almeno sapere, dove è stata fatta, e quando è stata fatta”.

Gianni Berengo Gardin Gran Bretagna 1977

Allora approfittiamo per chiederle: le piacciono tutte le foto che ha scattato negli anni?

Alcune di quelle esposte le ho riscoperte pensando questa mostra, al momento dello scatto non pensavo valessero molto, invece con gli anni hanno acquistato valore ai miei occhi, sono come il vino buono che invecchiando migliora. Il momento dello scatto influisce molto sul fotografo. Non è un caso se Koudelka diceva che le foto le devi scegliere un anno dopo averle fatte, perché magari quando le fai senti una musica che arriva da una finestra aperta, e sei influenzato da quella musica e per te è una grande foto, riguardandola dopo un anno, ti accorgi invece che non lo è… ma scusate un momento (si interrompe), voglio fare questa foto di Caterina (la moglie di Berengo Gardin, ndr) col grafico…

Berengo Gardin, lei è un fotografo vero, di quelli che non si risparmiano. Nelle sue foto parlano le persone, la curiosità è tanta, allora le chiediamo: ma le sue foto partivano da una commissione?

Qualcuna sì, giravo l’Italia per il Touring Club Italiano che mi faceva fare tantissimi scatti di architetture cosa che non amavo molto, e allora nel frattempo scattavo foto anche per me, io nasco come fotografo di reportage non di architettura, in questo era un maestro il mio amico Gabriele Basilico, da lui ho imparato molto.

Come è arrivato alla fotografia?

Io nasco fotoamatore, mi convinse a fare il salto e diventare professionista Romeo Martinez. Passeggiavamo insieme a Venezia, dove allora vivevo, e lui, che era direttore della più importante rivista di fotografia che si chiamava Camera, mi incitò a fare questa pazzia. Io non avevo il coraggio, il mio lavoro mi rendeva bene e avevo già moglie e due figli, ma se a consigliarmi era Romeo Martinez che era un colosso della fotografia, forse ce l’avrei fatta, e così tutto è iniziato.

Gianni Berengo Gardin Venezia 1960

Qual è la sua foto preferita?

La foto che amo più di tutte è quella fatta dal treno che si stava già muovendo, trovo stupenda l’espressione e la reazione dei tre ragazzi al mio scatto, uno mi mostra la lingua, uno dice ma cosa fai? E l’altro sorride soddisfatto. Cogliere tre espressioni così diverse in una foto mi piace. Poi mi piace molto anche la foto di piazza San Marco a Venezia con l’Unità (il quotidiano del Partito Comunista Italiano, ndr). Quando il PCI aveva raggiunto il 35%, io allora ero comunista e sono ancora comunista, ma non come Stalin, o Putin, ma come Berlinguer, che era una persona eccezionale e purtroppo ci ha lasciato troppo presto. Anche questa amo molto (ci mostra la foto del Canal Grande di Venezia che vediamo qua sopra, ndr) perché tutti credono che sia una barca di Carnevale, invece era una barca da funerale e a Venezia non hanno più queste barche nemmeno al Museo Navale, la ritengo importante proprio perché documenta qualcosa che non c’è più. E poi sono stato fortunato perché proprio mentre scattavo è passato un gatto e tutto ha assunto un significato diverso.

Gianni Berengo Gardin Caffè Florian Venezia 2012

Lei ha fotografato tanto anche le persone al lavoro, i contadini, gli operai. Perché?

La civiltà contadina mi ha sempre affascinato, adesso sto preparando proprio un libro sul mondo contadino dal 1950, quando i contadini, se non avessero avuto il mulo, non avrebbero potuto lavorare perché abitavano in paesini sperduti. Ora i muli non li usano più e ci sono quelle macchine mostruose.

Tra i suoi tanti libri (263 pubblicazioni, ndr) ci sono quelli dedicati ai Rom, un tema a lei caro?

Ho pubblicato tre libri dedicati ai Rom, perché è un popolo bistrattato, mi ricordo di una foto scattata al funerale di due bambini, che erano morti nell’incendio della loro roulotte, che aveva preso fuoco per l’incuria del comune di Bologna che aveva fatto male l’impianto elettrico.

È anche riuscito ad entrare in un convento e a fotografare le suore di clausura, come ha fatto?

L’iter è lungo, bisogna avere il permesso del vescovo, poi quello della madre superiora, ma poi alla fine ce l’ho fatta. Ho fotografato le suore mentre lavoravano l’orto, la vigna, mi aveva sconvolto il racconto di una suora che mi spiegava che loro si svegliano tutti i giorni alle quattro del mattino per andare a pregare in chiesa davanti al Crocefisso, ma che per loro non è la rappresentazione del Cristo morto, ma del Messia vivo.

Lei ha fotografato anche tanto le stazioni. Il viaggio è importante nei suoi lavori?

Ho fatto molti libri dedicati al viaggio, ci sono foto che raccontano la nostra storia, ad esempio quella della stazione di Milano dove c’è un uomo che dorme appoggiato ad una damigiana di vino, come avrebbe fatto poi a portarla sul treno è un mistero, ma comunque erano uomini che si muovevano per andare a lavorare in Germania, in Svizzera.

C’è qualcuno che ha influenzato il suo lavoro?

I miei primi scatti li ho rivisti in questi giorni ed erano spaventosamente orribili, poi uno zio che viveva in America mi mandò dei libri di Dorothea Lange, di Eugene Smith e altri e così ho capito che con la fotografia potevo raccontare le cose. E non dico che ho copiato dai libri degli americani, ma ho subito una forte influenza su cosa e su come fotografare, e quindi non mi sono inventato niente.

C’è un preferito?

Ce ne sono tanti, Cartier-Bresson, Koudelka, Eugene Smith

Ma lei preferisce il colore o il bianco e nero?

Odio il colore, il colore distrae. Distrae il fotografo e soprattutto distrae chi vede la fotografia. Se io fotografo qualcuno con un vestito colorato tutti si concentrano su quello e non guardano la faccia, con il bianco e nero il vestito non interessa più e la concentrazione è sul viso. Per me il tema principale è la persona. C’è a chi piace, ci sono dei fotografi francesi che fotografano solo a colori e fotografano benissimo. Certo che se ti danno l’incarico di fotografare le rose, devi per forza usare il colore. Però io non accetto di fotografare le rose.

Gianni Berengo Gardin Marengo 1994

C’è qualche fotografo giovane che l’ha colpita ultimamente?

Ce ne sono tanti, ma non faccio i nomi per non offendere nessuno. Purtroppo, i giovani fotografi non riescono a vivere facendo reportage e allora si buttano tutti sulla moda, sulla pubblicità e il reportage non lo fanno più, mentre i grandi maestri del passato sono tutti esclusivamente fotografi di reportage e pochi di moda.

In chiusura della mostra c’è anche una sezione inedita di fotografie realizzate nel 1994 in occasione della rievocazione storica della Battaglia di Marengo a Villa Delavo. Gli scatti fotografici del maestro compongono il catalogo Gianni Berengo Gardin – Marengo, 1994 che contiene anche testi dell’esperto di storia napoleonica Giulio Massobrio.

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