Intelligenza artificiale, filosoficamente parlando (pt. 2)

In questo momento storico l’AI ci appare a tratti quasi “umana”, questo sta creando entusiasmi ed inquietudini. Abbiamo parlato in questi mesi di scenari etici per l’uomo che, un giorno, dovesse confrontarsi con evidenze super intelligenti non biologiche o con forme di vita artificiale. Tuttavia, guardando alla realtà dei fatti, non dobbiamo perdere di vista che ad oggi l’AI è un grosso cervellone che si limita a fare – solo – predizioni statistiche. Risulta quasi sempre molto efficace per due ragioni: 1) ha scomposto e registrato gran parte del sapere dell’umanità in modo da poter leggere i simboli sottostanti, tale sapere ed è in grado di associarli ad un significato che sia tale per noi umani; quindi sa fare calcoli statistici su quando una certa sequenza di simboli prende senso; 2) va veloce, velocissima.

Nessuno scienziato pensa ad oggi che l’AI sia più di questo: una enorme matrice di numeri che rappresentano correlazioni. È intelligenza? Beh, con difficoltà la potremmo definire tale. Potrà mai avere una coscienza? Chi potrebbe dire di sì? Nessuno.

Il nostro punto di vista però fino ad oggi è stato quello di andare dall’altra parte della medaglia. Nessuno mette in dubbio cosa sia l’AI: l’abbiamo fatta noi, sappiamo bene cosa sia. L’altra parte della medaglia è: cosa siamo noi? Visto che l’AI, con una sola matrice matematica, è in grado di scrivere una poesia, non è che anche il nostro cervello, in definitiva, è anche esso una matrice matematica? Detta diversamente: qualunque cosa sia il nostro cervello… c’è il rischio che sia “isomoformo” (ovvero riconducibile pari pari) ad una matrice artificiale?

E qui risiede il punto di svolta etica. Se l’intelligenza è in definitiva una robetta matematica, dobbiamo elevarci ed appellarci alla coscienza. Forse il cervello intelligente è come un muscolo, è qualcosa che bionicamente può essere migliorato o sostituito (chi si ricorda la serie TV L’uomo da sei milioni di dollari?), ma cosa possiamo dire della coscienza?

Siamo arrivati a capire un fatto: o la coscienza è un’emanazione del cervello, quindi un insieme di ragionamenti e precetti morali mischiati con rilevazioni emozionali (come dice, e confuta, Federico Faggin, è un epifenomeno del cervello), oppure ha una sua valenza, una sua esistenza autonoma e distaccata dal cervello. Bene, ma dove sta esattamente? Come entra nella nostra storia? Come modifica la biochimica per farci agire? Gli scienziati non ne hanno trovato mai traccia. Se la coscienza esiste come qualcosa di reale e non fisico, allora deve essere una forza nascosta, qualcuno la chiama anima. Faggin ed altri ipotizzano che la coscienza possa essere annidata all’interno di movimenti quantistici della materia, ma per ora sono solo teorie e possiamo certo dire che anche la fisica quantistica alla fine è matematica e calcolo delle probabilità. Insomma andiamo dritti al punto: se vi è una coscienza, dobbiamo ammettere un dio o qualche esistenza metafisica. Cartesio era su questa linea.

Giordano Bruno, Thomas Hobbes e con Baruch Spinoza già nel diciassettesimo secolo trattarono questi temi, almeno filosoficamente. L’etica che questi autori hanno riservato per l’uomo prevede sì l’esistenza di Dio, ma non una esistenza di una coscienza che sia altro rispetto alla natura. Se seguiamo questo filone di pensiero, si appiattisce il divario tra uomo e natura, decade l’ansia da prestazione, non ha molta importanza se l’intelligenza dell’uomo o la sua coscienza siano una matrice matematica o altro, questi filosofi tagliano la questione salendo ancora di livello.

Baruch Spinoza fece traballare la cultura occidentale dell’epoca, ebreo scomunicato dall’ebraismo, dal cattolicesimo e dai protestanti… certo si è fatto notare. Fu lui per primo che mise in crisi la Bibbia, facendo notare che necessariamente era scritta da uomini e non da Dio e neppure dai profeti che in essa sono protagonisti, banalmente fece notare che Mosè non avrebbe potuto scrivere il pentateuco, visto che ad un certo punto parla della propria morte e di quello che avvenne dopo.

Tintoretto La creazione degli animali 1550 1553

Spinoza dice “Deus sive natura“, “Dio, quindi la natura“. Egli, come altri filosofi del suo tempo, non cambierebbe una virgola a fronte della invenzione dell’AI. Le implicazioni che ne derivano sono duplici, da una parte si pone il tema evoluzionistico (ne abbiamo parlato in un precedente articolo), dall’altra il tema del finalismo. Spinoza fa notare che l’uomo dovrebbe smetterla di pensare alla natura come orientata verso un fine, la natura non ha un fine, la natura procede di necessità attraverso il conatus (sforzo, tentativo). Non c’è il Sole perché l’uomo viva, ma l’uomo vive perché c’è il Sole, il Sole è la causa, l’uomo l’effetto, non il contrario. Se decade il fine, decade anche l’ansia. Se la natura procede per effetti e non c’è una direzione giusta o sbagliata, allora non vi è nulla da temere. Spinoza chiude la questione con un paradosso: se Dio avesse creato qualcosa che necessiterebbe procedere verso uno scopo, allora sarebbe manchevole, perché avrebbe potuto direttamente creare la situazione finale. La natura così com’è è lo scopo, Dio non è manchevole. Egli critica anche i miracoli che, come la coscienza, dovrebbero alterare le leggi della natura e si chiede: ma perché Dio avrebbe fatto un mondo imperfetto per poi correggerlo man mano?

Ponzio Pilato e Gesù in <em>Jesus Christ Superstar<em>

Accettando di buon grado la provocazione di questi filosofi, il conseguente problema si sposta quindi sul libero arbitrio. Si aprono due scenari: nel primo il libero arbitrio non esiste, tutto procede di necessità, tutto è già segnato, come in Jesus Christ Superstar, dove Gesù dice a Ponzio Pilato, prima della condanna a morte:

You have nothing in your hands. Any power you have comes to you from far beyond. Everything is fixed, and you can’t change it.

Il secondo scenario richiede una riflessione: perché parliamo di libero arbitrio e perché ne parliamo solo in relazione all’uomo? Invero noi associamo il libero arbitrio alla morale, è insito nella nostra cultura. Dato che le conseguenze delle nostre azioni generano più felicità o tristezza, hanno un carico morale che può, ed anzi deve, essere giudicato. Morale significa per noi: dopo la tua azione, tu e chi è intorno a te sta meglio o peggio? La nostra etica necessità di una morale. Siccome gli esseri umani sono più o meno molto simili, gioiscono e si intristiscono grosso modo per le stesse cose, si cade nella tentazione di ricercare un ordine morale superiore. Si necessita quindi di un dio che emani le regole morali? Può essere, ma può non essere. Un libero arbitrio moralmente giudicabile potrebbe essere comunque frutto di una grande matrice numerica? Pensiamo che potrebbe, sebbene per la stragrande maggioranza degli uomini questo è molto poco accettabile. La morale può essere contenuta in una matrice?

Abbiamo già sottolineato che gli algoritmi stanno diventando più bravi di noi a prevedere le nostre decisioni e mosse, non sarà lontano il giorno in cui in aereoporto saremo fermati ai controlli di sicurezza coordinati da un algoritmo e non sarà lontano il giorno in cui gli stessi giudici di corte saranno coadiuvati da algoritmi.

Filosoficamente parlando, l’AI non è una questione troppo articolata, è solo un software. Questo software però apre solo un tema etico per l’uomo, non per l’AI ma per l’uomo. Non va fatta una AI etica, va capita l’etica che l’uomo sceglie di avere per se stesso all’epoca dell’AI. Per etica, sia inteso, non intendiamo ciò che è giusto o sbagliato, ma come definiamo l’uomo.

la prima parte di questo articolo è stata pubblicata qua.

le puntate precedenti di queste riflessioni su coscienza, pensiero filolosofico e intelligenza artificiale le potete trovare qua:

Dio è nei dettagli? No, nei computer. Un’ipotesi sull’uomo, la Natura e l’Intelligenza Artificiale

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