Mi trovo ad Istanbul, Turchia, città dal colore soffuso di un abbraccio, e di recente ho visitato numerosi luoghi d’arte, fra cui il Palazzo Topkapı, la cui bellezza straordinaria e l’immenso valore storico sono indefinibili a parole. Nei pannelli che precedono l’ingresso delle numerose collezioni interne esposte è scritto che è severamente vietato fotografare gli oggetti e gli interni (stessa cosa avviene anche nel palazzo ottomano Dolmabahçe). Tuttavia, mentre la mia visita prosegue nel serpente conduttore e il mio occhio si sofferma sui dettagli, mi accorgo che non solo le persone intorno a me fotografano, ma che addirittura procedono nella registrazione video dell’intero spazio espositivo e della camminata religiosa che solo il turismo di massa è in grado di produrre.
Video, registrazioni sfocate, mosse, avvicinamenti pericolosi all’oggetto artistico che diventa una mera immagine, solitario spiraglio di luce soffocato dalla ricerca famelica di bellezza che non vede limiti nel possesso mediatico. Noncurante della biografia degli oggetti, della fattura, della storia, delle regole espositive, la mano afferra il cellulare, cercando di confermare in tal modo, con una fotografia, la propria esistenza, il proprio passaggio temporaneo, oserei dire effimero. Come è possibile che si sia giunti ad un tale accanimento massmediale nei confronti di luoghi d’arte che sopravvivono quasi eterni ai conflitti, al tempo come costrutto sociale, alla vita odierna distante, ma pur sempre correlata? È sorprendente osservare come l’utilizzo del dispositivo tecnologico frapponi a sé e agli altri un filtro, un medium mediante il quale l’oggetto assume una funzione totalmente scissa dal suo esistere in quanto tale.
Il bisogno di possesso, di repliche infinite, di video in movimento che non possono altro che produrre una minima parvenza di quello che solo l’occhio è in grado di suscitare e proiettare. In queste sale, il cui valore culturale è impossibile definire, ho percepito il distacco sociale che il consumismo turistico ha prodotto, strettamente legato al bisogno capitalista di finzione, di maschera, di ipocrisia. Sguardi vacui, riflessi negli schermi che imprimono immagini e registrazioni di opere poste ad una distanza minima, noncuranti delle regole che ne vietano l’utilizzo. Il palazzo storico, la collezione di gioielli privata, l’harem del Sultano ottomano, la collezione degli abiti imperiali, costituiscono in tal modo, anche per le proprietà percettive che sono in grado di produrre, la sola possibilità superficiale di conquista del sé, perché appare evidente ai miei occhi come la considerazione profonda della propria vita materiale sia appesa quasi unicamente per un sottile filo.
L’opera d’arte quindi cessa di esistere come presenza tangibile e assume unicamente una propria identità in funzione di potenza, divenendo in tal modo lo sfondo di una centratura focale che l’individualismo imperante persegue, ove le notazioni artistiche, la storia, la tecnica di produzione scompaiono, perché prive di interesse agli occhi dei più. Sento l’esigenza di descrivere anche un altro accadimento, forse perché spinta dall’amore che pongo nella Memoria, nel passaggio di mano nella trasmissione del sapere.
Museo Archeologico di Istanbul, tesoro dei primi germi della nostra Arte, del nostro sistema sociale, della nostra vita di mondo occidentale. Mentre mi avvicino alla sezione dedicata alle antichità romane mi accorgo che su una statua, datata II d.C, ci sono appoggiate (in ordine seguente) una giacca, un sacchetto di un noto brand di cosmetici e un ombrello. Cerco di comprendere la ragione, l’origine di questo gesto a mio parere dissacratorio ed ecco che, sulle scale opposte, una donna posa al centro della sala, in continui scatti fotografici muniti di passerella, e la statua osserva, diametralmente frontale a lei, sembra gridare i suoi quasi duemila anni di esistenza. Il sacchetto è appoggiato, nella fretta vorace di uno scatto estetico (dovuto alla scenografia di una esposizione museale), piano piano scivola mentre cerco di spiegare la gravità del gesto e chiamo qualcuno affinché gli oggetti vengano tolti. Mi accolgono sguardi di indifferenza, come se la mia presenza ostacolasse lo “scatto perfetto” in funzione di una presentazione mediatica dal sapore fittizio. Il tutto mi appare strano, contorto, e il silenzio della statua ieratica diventa anche il mio.